mercoledì 23 maggio 2018

Mai sottovalutare il potere delle fiabe. "E tu splendi" di Giuseppe Catozzella, una favola tra lo spauracchio degli stranieri, la lotta di classe, la nostra mancanza di coraggio e la vigliacca connivenza coi padroni che ci ucciderà.

 Uno spettro si aggira per le librerie: lo spettro delle estati dei preadolescenti.

 E' uno dei temi dell'anno. "Stranger things" e una certa retrotopia data dall'angoscia dei tempi presenti, hanno contribuito a rendere le dense estati dei preadolescenti uno dei dei topoi preferiti della narrativa o forse dell'editoria del 2018.

 Ricordi di estate dei bei tempi andati, meglio ancora se comprese tra gli anni '60 e '80 (prima si era troppo poveri, dopo ancora troppo giovani per la nostalgia) sono la materia stessa di cui sono fatte ormai decine di trame.

 In verità, forse, di tutte le mode editoriali possibili, questa è una di quelle che incontra maggiormente il mio favore, anche se, purtroppo, i protagonisti sono quasi sempre maschi che scoprono quanto la vita adulta possa essere bella (uuuuh il sesso, le donne, urrà) o brutta (quelli che tre anni prima giocavano a nascondino con te, tre anni dopo ti tiranneggiano e indicativamente andrà così per il resto dell'esistenza).

  Le femmine guardano ai bordi di periferia o al massimo si aggirano solitarie perché qualche genitore volenteroso si è dimenticato di rinchiuderle.

 In questa vasta produzione, spicca "E tu splendi" di Giuseppe Catozzella che avevo inizialmente percepito come ennesima storia di sud e preadolescenza in un passato imprecisato.
 E invece ho scoperto nelle due serate velocissime in cui il libro si è lasciato agilmente leggere che Catozzella non si era allontanato dal tema del suo successo precedente: "Non dirmi che hai paura".

 Voglio essere sincera, anche perché altrimenti le recensioni se è sempre tutto bello non hanno senso (invidio molto i blogger che incontrano solo e ininterrottamente libri che trovano fenomenali), "Non dirmi che hai paura" non mi piacque.

 E' uno di quei libri a cui calza a pennello la dicitura "necessario" perché è in effetti tale.

 Uno di quei libri che è necessario qualcuno scriva in un determinato momento perché raccontino una frazione di realtà che non possiamo e dobbiamo ignorare, ma l'ho trovato, pur con tutte le sue ottime intenzioni, molto didascalico.

 Da un certo punto di vista non poteva essere in altro modo, quando si racconta la vita di altri, morti in tragiche circostanze, come accadde a Samia, l'atleta somala protagonista del libro, c'è sempre una dose di responsabilità che non lascia grande spazio all'improvvisazione.

 Questo "E tu splendi" parla anch'esso di immigrazione, ma lo fa con un'intuizione incredibilmente più riuscita.

 Cosa determina il successo delle trame "preadolescenza nostalgica degli anni '60-'80"? A mio parere, l'archetipale cornice della favole dei bei tempi andati. 

 Non stiamo parlando di un mondo che è esistito davvero, ma di quello che a molti piace ricordare (o ad altri, più giovani, tipo me, piace dire sia esistito tanto non possiamo replicare).

 I tempi favolosi in cui stavamo tutti bene, la mamma ci coccolava, dovevamo solo andare a scuola e passavamo le estati per campi a rincorrerci con gli amici senza telefonini di mezzo? 
 Questo è quello che Catozzella ci dà: prende la moderna cornice delle favole per adulti e le piega alle sue ragioni.

 Il protagonista, Pietro è un ragazzino di Milano, figlio di immigrati lucani, che ha da poco perso la mamma, è stato bocciato anche a causa di una scuola poco sensibile ai problemi personali dei ragazzini (tendiamo a rimuovere, ma un tempo la scuola era molto più pane al pane vino al vino), e viene spedito da un padre neodisoccupato a passare l'estate dai nonni in Basilicata assieme alla sorellina.

 Lì si prospetta un'estate abbastanza identica a tutte le altre: giochi con gli amici, prove di coraggio contro leggendarie creature del folklore, interminabili pomeriggi nella bottega della nonna, l'unico negozio del paese.

 In realtà il paese siede da almeno una ventina di anni su una sorta di polveriera emotiva. 

 Una sorta di piccolo boss locale, zì Rocco, tornato dalla Germania, aveva avvelenato tutti i terreni che non era riuscito ad acquistare, portando i contadini concorrenti alla fame.

 Nessuno ha le prove (e sembra averle mai effettivamente cercate, in un clima di perversa connivenza, come si vede avanti nel libro), ma nessuno ha dimenticato anche perché zi Rocco aveva poi comprato le terre avvelenate per due lire e da allora spadroneggiava dando lavoro malpagato ai tre quarti del paese.

 Durante una delle sue sortite pomeridiane con gli amici, Pietro scopre in una vecchia torre abbandonata, una famiglia di stranieri

 Durante la storia non si specifica da dove vengano e da cosa scappino, proprio come nelle fiabe hanno un ruolo archetipale: "Lo straniero".

 Le dinamiche che questa scoperta scatenano da quel momento una serie di reazioni che riproducono in piccolo ciò che l'Italia intera vive in grande. 

 Il ragionamento però fila in modo sotterraneo, ma preciso: quando il problema viaggia sopra di noi, portato di bocca in bocca da giornali che inseguono l'allarmismo, fomentato da politici che mirano solo a scatenare il panico per tornaconto personale, è difficile averne una reale percezione.

 Mettendo un gruppo di stranieri in una piccola realtà, chiusa, impoverita, livorosa (e priva del coraggio necessario a rialzarsi) è più semplice vedere la grande falla del sistema: la facilità con cui addossiamo a chi è più debole o percepite come diverse problemi che con loro non hanno niente a che spartire.

 Il paese si riunisce perciò per un'improbabile spartizione degli immigrati che qualcuno deve offrirsi di ospitare. 

 Finisce che le donne vanno a fare le pulizie da gente ricca, il ragazzino viene preso in casa da un anziano solo e gli uomini finiscono da zì Rocco.

 Ecco, il pezzo di zì Rocco è forse quello più delicatamente interessante perché rappresenta il grande equivoco di tutto il caos odierno: la guerra tra poveri invece della guerra tra ricchi.

 La lotta di classe è finita, diceva un saggio, perché qualcuno l'ha vinta, e quel qualcuno sono i ricchi sempre più ricchi che hanno sabotato ciò che Marx aveva capito benissimo: i lavoratori di tutto il mondo devono unirsi, altrimenti sono formiche che chiunque può schiacciare o che, peggio, finiscono per uccidersi tra loro.

 Ed è quel che accade in paese: Zì Rocco prende in casa i tre uomini stranieri del gruppo, guadagnandosi il plauso di un intero paese che tre secondi prima stava per linciare il barista solo per aver offerto loro dell'acqua ("Sono tutti pazzi" pensa sensatamente Pietro).

 Li prende non per carità, ma per metterli a lavorare per un tozzo di pane nelle sue terre, approfittandone al contempo per abbassare il salario a tutti.

 Ovviamente, come accade in quest'epoca confusa e frammentata, invece di battersi per far avere una paga adeguata anche agli stranieri e stroncare in tal modo la faccenda, ci si concentra sul linciaggio degli stessi, presi in una morsa incomprensibile: sfruttati, odiati, inseguiti e perseguiti, mentre il padrone ingrassa, circondato da scagnozzi e da istituzioni che invece di inchiodarlo, lo favoriscono (il pezzo col tizio dell'unione europea è interessante, ma lasciato un po' cadere nel vuoto).

 Alla fine della storia, che non dico come finisce, la sensazione è la stessa, disturbante di alcune favole che colpiscono nel segno con una potenza che romanzi arzigogolati e pretenziosi non riescono ad avere.

 Quale racconto più de "I vestiti nuovi dell'imperatore" riesce a raccontare l'ipocrisia del potere e la piaggeria vigliacca di chi riesce a essere solo suddito oltre ogni ragionevolezza?

 E dire che "E tu splendi" sia una fiaba non vuol dire perciò sminuirlo, al contrario, non bisogna mai sottovalutare il potere primordiale delle fiabe.

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