domenica 9 febbraio 2020

La letteratura ha poco a che vedere con la giustizia. Il caso "Cummins", il verismo e il romanzo, il chi può parlar di cosa, gli scrittori catfish e il rischio manuale Cencelli.

 Durante una delle mie presentazione di “LESBOOM!”, mi venne chiesto quali libri lgbt letti nell’ultimo anno mi sentivo di consigliare.

Risposi, tra gli altri, “Cinzia” di Leo Ortolani, un libro che avevo trovato straordinariamente puntuale e sensibile (ovviamente nella tipica comicità ortolanesca). A tal proposito, mi venne fatta una curiosa domanda:

“Alcuni nella comunità lgbt pensano che Ortolani non avrebbe dovuto scrivere un fumetto su un argomento non suo, la comunità transgender, tu cosa ne pensi?”.

Rimasi discretamente strabiliata perché non avevo pensato neanche un secondo sull’opportunità che un autore si cimentasse o meno su un determinato tema. Inoltre, in quel caso particolare, mi aveva molto colpito la capacità di un autore non direttamente coinvolto di riuscire a farci dell’ironia: un’impresa difficilissima.

 Mi aveva oltretutto stupito, venire a sapere, durante una presentazione, che Ortolani per non rischiare di sentirsi troppo vincolato dal terrore di offendere qualcuno, avesse deciso, dopo un’iniziale momento di ricerca, di procedere a braccio. Pensai che è in casi come questi che si misura il talento di un autore: quanto più ci si inoltra in acque a noi poco note tanto più il rischio di annegare è grande. Ma è quello che fa un vero autore: esce da sé stesso per entrare nelle vene del mondo.

E’ a questo episodio che ho pensato davanti alla polemica sul romanzo di Jeannine Cummins: “Il sale della terra”, al centro di una polemica negli Stati Uniti dopo che l’ottimo ufficio stampa della casa editrice (che pure vi ha investito un milione di anticipo, quindi ci sta che usi l’artiglieria pesante) è riuscito a piazzarlo nel club di lettura di santa Oprah Winfrey della tv generalista.

 Il romanzo racconta la storia di una libraia messicana e di suo figlio, costretti a fuggire drammaticamente da Acapulco agli USA, dopo che la famiglia è stata sterminata a causa delle inchieste sui cartelli della droga del marito della protagonista.

 La letteratura, o meglio, l’editoria, come tutti i settori fatti anche di commercio, segue le mode e i temi del momento

 Adesso, grazie a Trump che costruisce muri e pensa che rinchiudere una manciata di bambini in delle gabbie al confine col Messico, sia la soluzione per il problema dell’immigrazione, le storie di confine sono tornate alla ribalta. Uno dei casi più eclatanti è stato “L’archivio dei bambini perduti” di Valeria Luiselli.

Proprio la Luiselli, che sarà pure messicana, ma il nome tradisce chiare origini italiche (il tema su quante generazioni indietro tocca andare per stabilire il diritto a parlare di un argomento o meno dovrebbe a sto punto essere affrontato), è una delle accusatrici.

 Il punto ruota tutto intorno a una nuova ossessione americana che i fan di Netflix avranno intravisto affiorare qui e lì nelle serie tv: puoi permetterti di parlare di una cosa  solo se ne sei direttamente coinvolto.

 Questa teoria parte ovviamente da un assunto buono e che affonda le sue radici nelle pessime usanze del passato, quando, a parlare di un argomento sull’etnia, sulla minoranza X o anche solo sulle donne erano sempre i soliti maschi WASP. Cosa ne può sapere un WASP di quello che hanno passato latinos/afro/lgbt e via discorrendo?

 Non è per forza una teoria sbagliata o per meglio dire, non lo è quando effettivamente le case editrici o qualsiasi arte audiovisiva ti propone solo autori WASP, solitamente maschi che, miracolosamente sono sempre meglio di tutto ciò che non è maschio bianco caucasico possibilmente protestante al massimo cattolico.

Perciò, devo dire, che se la polemica fosse stata improntata solo sul conservatorismo dell’editoria e sui rapporti evidenti di potere tra gruppi dominanti e dominati nel diritto alla rappresentazione, allora avrei intravisto un barlume di senso nella polemica.

Nel momento in cui la polemica si sposta su un’impostazione ideologica: tu DEVI parlare solo di quello che sei, allora dico un attimo fermi tutti.

La letteratura non è memoir.

E’ evidente che parte dell’equivoco parta proprio da qui. Da anni la narrativa subisce una certa fascinazione per le storie che hanno una base di vissuto come se questo fosse garanzia di maggior forza, lasciando ampio spazio all’ambiguità.

 Le derive di questa mania sono stati alcuni scrittori catfish (ai quali ho dedicato un post qualche anno fa): uno dei casi più celebri sono quelli di J. T. Leroy autrice di “Ingannevole è il cuore sopra ogni cosa”, complicata storia di abusi e fughe che l’autore disse di aver provato in prima persona. Si scoprì poi che l’autore era un’autrice e che la persona che la interpretava nelle occasioni pubbliche era sua cognata.

L’episodio avrebbe dovuto spingere a una riflessione: la sottile linea di confine sulla qualità intrinseca di un libro e la fascinazione della storia personale dell’autore.

 A tal proposito, due casi dovrebbero mostrarci la contraddizione.

 Il primo è raccontato in un romanzo, “Un giorno questo dolore ti sarà utile”. 

 La sorella del protagonista frequenta un corso di scrittura creativa all’università e, oltre ad aver intrecciato la classica relazione col professore anziano e affascinante, sa per certo che il suo libro a base di esperienze borderline da figlia di papà sarà presto pubblicato. Una chiara frecciatina di Cameron all’andazzo del: non importa come è scritto, importa chi lo ha scritto.

Il secondo, invece, dovrebbe ribaltare ogni certezza ed è la nostra cara Elena Ferrante. Un’autrice di cui nulla sappiamo, che potrebbe essere un uomo, una donna, un gruppo di scrittori, un pappagallo ammaestrato, ma che fa gridare all’unisono i critici: non importa lo scrittore, importa la scrittura (che è condivisibile sul breve periodo, ma sul lungo periodo della critica insomma).

 Il rapporto tra scrittore e contenuto non è perciò una materia così semplice da affrontare.

Anche io penso che, se si vuole fare buona letteratura e non letteratura commerciale (ma bisogna tenere presente che esiste pure questa), la sensibilità di un autore verso un determinato tema sia importante. Ma questo non perché ci metta un bollino di autenticità, ma perché ci mette quel bollino di “buone intenzioni” che è assolutamente necessario.

 Le buone intenzioni garantiscono il fatto che si è studiato, si è entrati in empatia, si è scelto di raccontare una determinata storia rispetto a un’altra perché per qualche motivo lo scrittore la sente sua

 Questo qualche motivo non può e non deve essere per forza il vissuto personale, altrimenti si arriva a ridicolaggini come la Cummins che deve resuscitare una nonna portoricana per dire che ha almeno un quarto di sangue latino e quindi è autorizzata a scrivere una determinata storia.

E’ ovvio altresì che nessuno scrittore è vincolato a questo sacro patto morale, ma in teoria avere una propria etica personale dovrebbe mettere al riparo da certi errori di valutazione, di pregiudizio, di indagine verso un qualcosa che fondamentalmente non si conosce a fondo. 

 In alternativa “le buone intenzioni” dovrebbero mettere al riparo almeno dalle accuse di sciacallaggio o dal sospetto di doppi fini (tipo un sovranista che scrive un romanzo d’immigrazione).

 Prendiamo un classico (adesso considerato per ragazzi, io lo lessi alle elementari e piansi come una fontana): “La capanna dello zio Tom” di Harriet Beecher Stowe.

 Il libro, assai criticato a posteriori per aver alimentato una serie di pregiudizi sulla solita idea del “nero magico” che tutto sopporta, fu scritto da una donna bianca. 

 Se il risultato letterario è dunque opinabile e il suo racconto è carico di inesattezze e pregiudizi fu comunque un romanzo che ebbe il grande merito di smuovere le acque in favore dell’abolizionismo. Giusto? Sbagliato? 

 Oggi si direbbe la seconda, ma rimane ai fatti che, per quanto carico di difetti, il libro contenga una forza innegabile. 

 La forza che deriva dalla letteratura e non dalla morale.

Si potrebbe opinare, ma c’è poco da farlo: la letteratura e il gusto dei lettori non sono soggetti a nessuna particolare “giustizia”.

 Un libro non rimane impresso perché è “il libro più giusto”, che ci piaccia o meno dobbiamo farcene una ragione.

Un altro esempio, potrebbe essere “La corsa di Billy” di Patricia Warren. Addirittura una donna etero che scrive in prima persona la storia di un uomo gay. Il libro ebbe un enorme successo pur essendo carico di stereotipi tanto da sfociare qui e lì nel fantasy (il seguito, “La corsa di Harlan” è praticamente fantascienza lgbt).

 Rimane tuttavia un romanzo particolarmente amato nella comunità lgbt per aver saputo sfidare, all’epoca, il perbenismo imperante e aver raccontato, pur con i toni del melodramma, le ingiustizie insensate a cui una persona gay poteva andare incontro solo per il proprio orientamento sessuale, dal licenziamento all’esclusione per principio dalle gare agonistiche.

(A tal proposito vi consiglio di leggere un piccolo saggio estremamente interessante di David Leavitt “Possono esserci libri gay?” contenuto nella raccolta “La nuova generazione perduta” ed. Mondadori).

 Tecnicamente sia la Warren che la Beecher Stowe si macchiarono dello stesso reato della Cummins: lesa veridicità.

Ma il punto, continuo a dire, rimane questo: la narrativa non deve essere vera.

 Il peccato originale, semmai, avviene in alcuni casi spacciati come autobiografici, come Lilin che ha fatto passare “L’educazione siberiana” come vita vissuta salvo essere smascherato a posteriori.

 E tutto questo discorso volendo sorvolare sull’annosissima questione di genere: le donne devono scrivere di donne ed essere lette da donne e uomini scrivono di uomini ed essere letti da uomini. Del resto, scusa, un uomo cosa ne può sapere e una donna cosa ne può sapere.

 Ci abbiamo già provato in passato e ci abbiamo messo qualche annetto a liberarcene almeno parzialmente (ancora non del tutto se esiste “la narrativa rosa”). Può una donna immedesimarsi in un uomo e viceversa?

 Prendiamo il caso del mondo fantasy e della fantascienza.

Generazioni di autrici costrette ad avere pseudo nomi maschili per essere prese sul serio. Il colmo dell’ipocrisia si raggiunse l’anno in cui in un’antologia di racconti di fantascienza, nell’introduzione, si scrisse che “Kate Wilhem è la donna da battere quest’anno, ma l’uomo da battere è Tiptree”.

 Peccato che James Tiptree Jr. fosse anch’egli una donna: la psicologa Alice Sheldon.
 Magari sarebbe stato interessante sapere se non avessimo avuto idea di chi fosse realmente Jeanine Cummins, se ci sarebbe stata questa polemica.

 Un romanzo deve solo essere un buon romanzo, non un saggio non un memoir: godibile, interessante, appassionante, anche a costo di non essere vero. E io onestamente, questo, dalle recensioni uscite, non l’ho capito. 

Ho capito solo che alcuni scrittori mi dicono che non devo leggerlo (improvvisi custodi della mia coscienza, ce ne sono sempre in agguato), che la scrittrice ha dovuto annullare il tour a seguito delle minacce (è normale questo?) e che qualcuno si è premurato di darmi una lista di libri alternativi da leggere sul tema (ma anche no, guarda, lascio perdere, fosse mai che domani scopro un nuovo caso Lilin e devo ricominciare da capo).

In qualsiasi caso, posto che è un interessante argomento di discussione, io sono della ferma opinione che tutti debbano continuare a scrivere di tutto, a recitare tutto, a parlare di tutto.

Certo, se lo si fa con cognizione di causa tanto meglio, ma la deriva delle pretese puriste rischia di fare un danno ben peggiore dei singoli dimenticabili casi.

 C’è il rischio che i neri possano scrivere solo di neri, i migranti di migranti, i gay di gay, gli irlandesi di irlandesi, i messicani di messicani, gli ortodossi di ortodossi e via discorrendo.

 Producendo in tal modo due effetti: la ghettizzazione degli scrittori e degli argomenti, il trionfo definitivo della maggioranza.

 Alla fine la maggioranza sarà autorizzata a scrivere solo di quello che conosce e sarà quello che la maggioranza dei lettori alla fine leggerà. E le minoranze otterranno l’effetto contrario: la quota minoranza della quota minoranza. Bene, in catalogo ho il mio scrittore africano che parla di Africa, l’ebreo che parla di ebrei e il gay che parla di gay. In parte funziona DAVVERO così, ma pretendere che lo sia in forza del purismo, ci mette in gabbia da soli.

 E io in gabbia non ci voglio stare. Quindi che tutti scrivano di tutto, i posteri e i lettori ci diranno se questo è stato un buon romanzo o un cattivo romanzo, non certo la morale pesata col manuale Cencelli vigente al momento.

 E direi di smetterla di tirare chi vuole solo campare con un minimo di buonsenso per la giacchetta.

3 commenti:

  1. Apprezzabilissima riflessione. Ciò che va cercata è la verosimiglianza.

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    1. Comunque su fb, dove ci sono stati parecchi commenti (ma temo che pochi abbiano effettivamente letto la mia riflessione qui sul blog), sono di parere molto diverso. Ormai si vive tutto come un'ossessione, come se ci fosse un'unica via, altrimenti sei il nemico reazionario. E' una gran fatica questo essere continuamente tirati per la giacchetta.

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  2. A parte che così butteremmo a mare senza speranza l'intera letteratura fantastica (Tolkien e McCaffrey non frequentavano draghi, Ariosto e Rowling non sono ippogrifi ecc.), mi dite, di grazia, quante persone Dostoevskij ha ammazzato a colpi d'ascia? E d'altra parte, chi se non lui che l'ha creato dal niente può raccontarci il percorso esistenziale di Raskolnikov? Prima di essere maschi, femmine, etero, trans, meticci, comunisti, tisici, assassini, astronauti, draghi, castori, cerbiatti o maghi siamo, prima di tutto, esseri umani o proiezioni di esseri umani e l'arte è qualcosa di più di un resoconto di vita vissuta.

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