La canzone è bellissima, Lana del Rey nonostante le sue labbra spropositate è bellissima (qui ancora di più), ma ovviamente entriamo nel campo della tristezza più totale. L'ipnotico motivo che parla di gente morta e sguardi sfrigolanti oltre i fili elettrici, oltre a causarmi una dipendenza (ormai l'avrò ascoltata non meno di un centinaio di volte), mi ha fatto venire in mente che ancora non vi avevo tediato sui libri che causano crisi di pianto.
Ognuno ha un libro che non riesce a leggere senza scoppiare in lacrime, o perlomeno ce l'ha ogni buon lettore, in grado di calarsi seriamente sui campi di battaglia della rivoluzione russa o in qualche devastante dramma familiare.
Personalmente il libro che più ha traumatizzato la mia infanzia in tal senso è stato "Piccole donne crescono".
Ricordo che mi piacque meno del primo, anche perché inizia con la devastante vita familiare dell'insopportabile sorella maggiore Meg. Una roba che tra figli, cucina, marito che invita a cena i superiori senza avvertirti e lontananza dalle amate sorelle, ti fa passare qualsiasi voglia di sposarti e procreare. Ero perciò già adeguatamente perplessa quando ecco abbattersi due delle catastrofi letterarie più significative che ogni ragazza occidentale si ritrova ad affrontare: la morte di Beth, la sorella santa che pur con la febbra si ostina a occuparsi degli infettivi ultimi, e lo sposalizio di Laurie con quell'oca di Amy. Ricordo una crisi di pianto per la morte di Beth cataclismatica. Mi ero aggrappata a mia sorella minore (che all'epoca da brava preadolescente avevo in odio) con fare tragico e piangente implorandola di non morire. Mia madre mi proibì di continuare la lettura del tomo finché non fossi stata in grado di non fare sceneggiate. Così lo terminai reprimendo i singhiozzi e domandandomi in silenzio per quale arcano motivo Jo avesse preferito una vita da governante sposata ad un vecchio, agli agi di una condizione economica favorevole e un sexy marito. Credo che Louisa May Alcott, autrice tra l'altro di racconti spregiudicati, stesse cercando di impartire una lezione di vita a tutte le ragazze etero della terra.
Alle superiori, adolescente sospesa tra il rincoglionito e i grandi ideali, versai tutte le mie lacrime su "Norwegian Wood" di Murakami (ma sfiderei qualunque sedicenne a non farlo visto il tasso di suicidio dei personaggi) e sulle "Lettere dei condannati a morte della resistenza italiana". Come detto "Norwegian Wood" mi diede una salutare botta di vita nonostante i fiumi di lacrime, (che perpetrai per tutte e tre le letture consecutive, esasperando nuovamente i miei parenti), mentre l'altro spalancò sostanzialmente le porte dell'inferno.
Tra staffette partigiane che prima di morire imploravano il perdono delle figlie, sedicenni torturati, studenti universitari che in Via Tasso scrissero col proprio sangue le ultime parole per le famiglie sul muro, tra fucilati che lasciavano cadere gli ultimi biglietti sul sentiero che li portava alla morte, nella speranza che qualcuno li ritrovasse per farli avere le famiglie, c'erano tutti gli ingredienti per causarmi convulse crisi di pianto unite a rivolte politiche in genere tutte interiori.
Se non lo avete letto, fatelo che è il momento.
All'università, scoperta Simone de Beauvoir, iniziai a divorare tutta la sua bibliografia, ma incappai fatalmente in "A conti fatti", l'ultimo libro della sua autobiografia. Una tragedia su tutta la linea. Come ovvio, la cara Simone inizia a fare un lungo elenco di morti. Tutti gli studenti, gli amici, le personalità, gli avversari che nei tre libri precedenti erano stati così attivi e vividamente giovani, morivano a sciami. Una delle persone più interessanti, di cui parla lungamente nel secondo libro, la studentessa Lise, le appare dopo anni completamente sfatta, la bellezza distrutta, le gambe grosse, una promettente vita distrutta da un matrimonio, una famiglia e un destino ordinari. Ad un terzo circa del libro, in preda a continue e fastidiose crisi di pianto che mi gettavano nello sconforto, ho dovuto smettere. Non so quando sarà tempo di riprenderlo e al momento ho ancora paura di farlo.
La palma comunque al libro che più in assoluto mi ha causato crisi di pianto, rimane ancora, "Il dolore perfetto" di Ugo Riccarelli (e credo lo rimarrà a lungo visto che la mia soglia di commozione libresca si è alzata molto in questi ultimi tempi: nell'arco di quest'anno ho pianto solo per "Il tempo di mezzo" di Fois)
In genere da un libro che sin dal titolo ti promette lacrime e dolore non ti aspetti tanto, specialmente che mantenga le promesse. Riccarelli, con questo insolito meritevole premio Strega, ci riuscì. Una saga familiare, ambientata in un paesino della Toscana, ricca di realismo magico e politica, meglio conosciuti come gli ingredienti per creare una melassa condita del peggio della narrativa italiana contemporanea. Invece Riccarelli scrisse, secondo me, un piccolo capolavoro, toccante, pieno di dignità, di morti dignitose, di vite dignitose, che fanno piangere perché posseggono una forza ormai scomparsa, in questi tempi beceri.
A me le lacrime, nelle storie, le hanno sempre causate delle morti ingiuste, la scomparsa di qualcuno, di un mondo, di una speranza, ed è per rendere onore, alle mie lacrime di un tempo, che vorrei condividere con voi una delle lettere che molto mi fece piangere alle superiori. Una citazione molto voluta adatta a questi giorni funesti.
Cari Amici,Vi vorrei confessare innanzi tutto, che tre volte ho strappato e scritto questa lettera. L’avevo iniziata con uno sguardo in giro, con un sincero rimpianto per le rovine che ci circondano, ma, nel passare da questo argomento di cui desidero parlarvi, temevo di apparire "falso", di inzuccherare con un patetico preambolo una pillola propagandistica. E questa parola temo come un’offesa immeritata: non si tratta di propaganda ma di un esamec he vorrei fare con voi. Invece dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali. Per riconoscere quanto da parte nostra si è fatto, per giungere ove siamo giunti. Non voglio sembrarvi un Savonarola che richiami il flagello. Vorrei che con me conveniste quanto ci sentiamo impreparati, e gravati di recenti errori, e pensassimo al fatto che tutto noi dobbiamo rifare. Tutto dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall’industria ai campi di grano. Ma soprattutto, vedete, dobbiamo fare noi stessi: è la premessa per tutto il resto. Mi chiederete: perché rifare noi stessi, in che senso? Ecco per esempio, quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia e al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà; e nel desiderio invincibile di "quiete", anche se laboriosa è il segno dell’errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. È il tremendo, il più terribile, credetemi, risultato di un’opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent’anni da ogni lato è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. Fondamentale quello della "sporcizia" della politica, che mi sembra sia stato ispirato per due vie. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è un lavoro di "specialisti". Duro lavoro, che ha le sue esigenze: e queste esigenze, come ogni giorno si vedeva, erano stranamente consimili a quelle che stanno alla base dell’opera di qualunque ladro e grassatore. Teoria e pratica concorsero a distoglierci e ad allontanarci da ogni attività politica. Comodo, eh? Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora, che nella vita politica – se vita politica vuol dire soprattutto diretta partecipazione ai casi nostri - ci siamo stati scaraventati dagli eventi. Qui sta la nostra colpa, io credo: come mai, noi italiani, con tanti secoli di esperienza, usciti da un meraviglioso processo di liberazione, in cui non altri che i nostri nonni dettero prova di qualità uniche in Europa, di un attaccamento alla cosa pubblica, il che vuol dire a sé stessi, senza esempio forse, abbiamo abdicato, lasciato ogni diritto, di fronte a qualche vacua, rimbombante parola? Che cosa abbiamo creduto? Creduto grazie al cielo niente ma in ogni modo ci siamo lasciati strappare di mano tutto, da una minoranza inadeguata, moralmente e intellettualmente.
Questa ci ha depredato, buttato in un’avventura senza fine; e questo è il lato più "roseo", io credo: Il brutto è che le parole e gli atti di quella minoranza hanno intaccato la posizione morale; la mentalità di molti di noi. Credetemi, la "cosa pubblica" è noi stessi: ciò che ci lega ad essa non è un luogo comune, una parola grossa e vuota, come "patriottismo" o amore per la madre in lacrime e in catene vi chiama, visioni barocche, anche se lievito meraviglioso di altre generazioni. Noi siamo falsi con noi stessi, ma non dimentichiamo noi stessi, in una leggerezza tremenda. Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura è sciagura nostra, come ora soffriamo per l’estrema miseria in cui il nostro paese è caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo? L’egoismo – ci dispiace sentire questa parola- è come una doccia fredda, vero?
Sempre tutte le pillole ci sono state propinate col dolce intorno; tutto è stato ammantato di rettorica; Facciamoci forza, impariamo a sentire l’amaro; non dobbiamo celarlo con un paravento ideale, perché nell’ombra si dilati indisturbato. E’ meglio metterlo alla luce del sole, confessarlo, nudo scoperto, esposto agli sguardi: vedrete che sarà meno prepotente. L’egoismo, dicevamo, l’interesse, ha tanta parte in quello che facciamo: tante volte si confonde con l’ideale. Ma diventa dannoso, condannabile, maledetto, proprio quando è cieco, inintelligente. Soprattutto quando è celato. E, se ragioniamo, il nostro interesse e quello della "cosa pubblica", insomma, finiscono per coincidere.Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più
delicato e importante. Perché da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di tutti gli altri. Se non ci appassionassimo a questo, se noi non lo trattiamo a fondo, specialmente oggi, quella ripresa che speriamo, a cui tenacemente ci attacchiamo, sarà impossibile. Per questo dobbiamo prepararci. Può anche bastare, sapete, che con calma, cominciamo a guardare in noi, e ad esprimere desideri. Come vorremmo vivere, domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere!Ricordate, siete uomini, avete il dovere se il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a quelli dei vostri figli, dei vostri cari. Avete mai pensato che nei prossimi mesi si deciderà il destino del nostro Paese, di noi stessi: quale peso decisivo avrà la nostra volontà se sapremo farla valere; che nostra sarà la responsabilità, se andremo incontro ad un pericolo negativo? Bisognerà fare molto.Provate a chiedevi in giorno, quale stato, per l’idea che avete voi stessi della vera vita, vi pare ben ordinato: per questo informatevi a giudizi obbiettivi. Se credete nella libertà democratica, in cui nei limiti della costituzione, voi stessi potreste indirizzare la cosa pubblica, oppure aspettare una nuova concezione, più egualitaria della vita e della proprietà. E se accettate la prima soluzione, desiderate che la facoltà di eleggere, per esempio sia di tutti, in modo che il corpo eletto sia espressione diretta e genuina del nostro Paese, o restringerla ai più preparati oggi, per giungere ad un progressivo allargamento? Questo ed altro dovete chiedervi. Dovete convincervi, e prepararvi a convincere, non a sopraffare gli altri, ma neppure a rinunciare.
Oggi bisogna combattere contro l’oppressore. Questo è il primo dovere per noi tutti: ma è bene prepararsi a risolvere quei problemi in modo duraturo, e che eviti il risorgere di essi ed il ripetersi di tutto quanto si è abbattuto su di noi.
Termino questa lunga lettera un po’ confusa, lo so, ma spontanea, scusandomi ed augurandoci buon lavoro.
Giacomo Ulivi
Scusate la lunga citazione, ma trovo sempre straordinario che questa lettera risulti tanto moderna e opera di un ragazzo all'epoca così giovane.
E voi? Quali sono i libri che vi hanno fatto più piangere in vita vostra? Mi raccomando, anche voi uomini, che non ci crede nessuno che non piangete sulle amare carte.
Piccole donne crescono ha traumatizzato generazioni di fanciulle, su questo non si discute. Un libro che ho letteralmente inzuppato di lacrime è"A un cerbiatto assomiglia il mio amore" di Grossman. Una presa a male di quelle rare.
RispondiEliminaPer non parlare di "Venuto al mondo" della Mazzantini, pianti &nodi allo stomaco garantiti.
"La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo", mi ha fatto piangere talmente tanto che la mia, di moglie, ha minacciato di cancellarmelo dal Kindle prima che lo finissi.
RispondiEliminaDa brava "amica bibliofila", come da tuo post precedente, io ho la fissa per un autore (a dire il vero ne ho più di una e per più di un autore, ma quella di cui ti dico è una spanna sulle altre): Oscar Wilde. Ovviamente, mi sono letteralmente sciolta sulle pagine del De Profundis, tutte le innumerevoli volte che l'ho letto come se fosse sempre la prima. Un altro amico libro che mi ha fatto piangere è Just Kids di Patti Smith: che dire, lei la adoro, Robert Mapplethorpe l'ho scoperto grazie a lei, e il libro è stato scritto così bene, a mio parere, che ci si sente parte di quel loro strano rapporto di amore-sesso-amicizia-lavoro...e il finale è struggente. Negli ultimi tempi, mi ha fatto piangere l'autobiografia di Louise Michel, la protagonista della mia tesi: una vera mosca bianca...da non credere come gli eventi tragici della sua esistenza non l'abbiano mai fatta desistere dalle sue lotte o disconoscere i suoi ideali: esisteranno ancora persone come lei e Ulivi? Ho paura della risposta.
RispondiEliminaComplimenti per il blog: i tuoi post sono diventati un appuntamento quotidiano ;) grazie!
Grazie a te di leggerlo :)
EliminaProbabilmente esistono persone come Ulivi, ma sono ben nascoste. Hai mai visto il film "Viva la libertà"?
E David Copperfield con i terribili Murdstones dove lo metti? E la morte di Dora? E aggiungiamo che a me Agnese proprio no, non mi era simpatica. Con il dito levato verso il cielo... mah.
RispondiElimina"Le ceneri di Angela" di McCourt, mi ricordo poco della trama ma tanto dei fazzolettini consumati!!Piccole donne crescono credo abbia traumatizzato intere generazioni!!!
RispondiEliminaLe pazze. Un incontro con le madri di Plaza de Mayo
RispondiEliminae
Centomila gavette di ghiaccio
Non me ne vengono in mente altri :)
Fiori per Algernon http://it.wikipedia.org/wiki/Fiori_per_Algernon (il racconto, non il romanzo)
RispondiEliminaPiango sconsolato ogni volta che mi capita di rileggerlo.
Non piango facilmente per i libri (mi succede più coi film, ma poco). Ma una cosa che, su qualsiasi media, mi costringe a stare davvero male e sciogliermi in migliaia di fazzolettini è quando viene mostrata la sofferenza/morte di un animale.
RispondiEliminaNon per nulla ricordo perfettamente, almeno, il primo libro per cui piansi terribilmente. Era un romanzo italiano per ragazzi, con protagonista un cane, "Pufi, storia di un cane sportivo" (non va a finire bene), che lessi a 7-8 anni. Tuttora un ricordo tristissimo, nonostante il libro mi avesse appassionato.
Da allora ho un rapporto contrastato con le storie di animali: da un lato mi piacciono, dall'altro appena mi accorgo che volgono al tragico, il più delle volte le mollo. Non le trovo proprio sostenibili... :°-|
La biografia di Frida Kahlo di Hayden Herrera... sono stata malissimo... sarò normale?
RispondiEliminaOgni mattina a Jenin di Susan Abulhawa
RispondiEliminaPersonalmente non mi ricordo dei casi. Ma a me interessa un altro tipo di domanda collegata: perché il sentimentale-patetico è considerato con disprezzo, come non letterario, di gusto inferiore? Non è una cosa banale perché per es. Dickens ne mettevea molto nei suoi romanzi, e molto probabilmente anche quella era una delle ragioni della sua popolarità. Invece a partire dal '900 i letterati che lodano Dickens lo fanno "nonostante" il patetico, cioè dicendo che quella è una sua parte che oggi non conta più ma che secondo loro per fortuna c'è dell'altro che riscatterebbe Dickens. Nel caso di teatro e cinema capita la stessa cosa: fino agli anni '30-'50 il patetico era molto diffuso e popolare. Anche nel caso di grandi registi come Fritz Lang (vedi per es. Metropolis, del 1927) e anche nel caso di Metropolis oggi si tende a dire che è un grande film "nonostante" il patetico. Allora perché oggi il sentimentale-patetico è inviso alla critica accademica che sempre lo considera come un segnale di cattivo gusto, una cosa da letteratura "plebea"? Perché scatenare le emozioni viene considerata come una cosa impura? Che cosa è successo dopo la metà dell'800, suppergiù, per quanto riguarda i romanzi, e dopo gli anni '50 del nostro secolo per quanto riguarda teatro e cinema? Eppure il sentimentale-patetico sopravvive: ma nella letteratura considerata di serie B e nelle produzioni televisive come le telenovelas. Ma non esistono più letterati come un Dickens che sono considerati grandi e lo usano. Oggi un letterato che lo usasse non sarebbe considerato grande. È come se il sentimentale-patetico fosse stato spinto in un ghetto, incieme a tutti gli artisti che lo usano e al pubblico che lo ama. E quando ci vergogniamo di ammettere i nostri gusti è perché perché abbiamo assimilato i pregiudizi della critica accademica. Una cosa che merita di essere approfondita: il discredito, la ghettizzazione di tutto ciò che è sentimentale, commovente, melodrammatico. Secondo me almeno in Italia centra molto la critica marxista e la visione di tutta la produzione sentimentale come una cosa che piacerebbe alle masse perché le consolerebbe. Letteratura sentimentale come oppio dei popoli, quindi. Hanno ragione?
RispondiEliminaI libri che più mi hanno fatto piangere sono " colpa delle stelle" ormai famosissimo ma davvero emozionante e che fa piangere e poi "allegiant" della trilogia di Divergent, consiglio di leggere tutti e tre i libri : Divergent,insurgent ,Allegiant perché se si passa direttamente a quello che fa piangere nn ci si capisce assolutamente niente... Io li consiglio vivamente��
RispondiEliminaHo pianto fiumi di lacrime mentre leggevo "Ritratto di Signora" di Henry James: piangevo per me stessa, perché mi ero resa conto di aver fatto lo stesso errore della protagonista: essermi affidata a un uomo che non mi apprezzava né mi vedeva per quello che ero.
RispondiEliminaIo però poi, a differenza di Isabel Archer, l'ho mollato!
Personalmente ho pianto per un solo libro, qualche anno fa: OSCAR E LA DAMA ROSA. Se ripenso a quel racconto, ancora mi commuovo. Schmitt è da questo romanzo il mio autore francese preferito.
RispondiEliminaIn infanzia il finale de I ragazzi della via Paal mi ha creato crisi di pianto convulse... Più di recente Io e Marley, Colpa delle Stelle e Oscar e la dama in rosa. Ma mi commuovo facilmente, lo ammetto
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