Premetto che questo post farà idealmente coppia con quello che spero di scrivere presto sulla figura di Teresa Noce, madre costituente, partigiana, politica infaticabile, partigiana, che ho scoperto solo di recente e la cui storia è secondo me emblematica e da riscoprire.
Ho letto recentemente la sua autobiografia e sto cercando un modo per scrivere un post degno, ma è dura perché nella sua vita c'è tanto, mi verrebbe da dire che c'è tutto quello che dovremmo reimparare a immaginare, ma soprattutto A FARE.
Spero in questi post di riuscire a spiegare quello che mi frulla in testa da quando è iniziata una sorta di crisi di coscienza politica interiore, immagino dovuta a un fatale mix di età e stravolgimenti vissuti in questi ultimi anni tra covid, vita e lavoro.
Ormai un anno fa trovai all’usato un libro che mi intrigava molto, “Tempi eccitanti” di Naoise Dolan ed. Atlantide.
Dall’ottimo lavoro dell’ufficio stampa, mi era parso di capire che parlasse della frustrazione dei millennial verso un capitalismo divorante che non riuscivano a combattere, il tutto ambientato a Hong Kong, uno degli epicentri del capitalismo più divorante.
Il claim by Zadie Smith prometteva infatti: "Una commedia dei nostri tempi spassosa, tagliente, femminista, marxista e davvero cattiva".
Con queste ottime premesse, mi sono gettata nella lettura con una certa fiducia e all’inizio, devo dire, le premesse sembravano confermate.
Ava è un’insegnante di inglese per ricchissime famiglie cinesi. Malgrado queste famiglie cinesi siano così straricche, a quanto sembra, non spendono però i loro soldi per garantire agli insegnanti (percepiti livello più o meno “autista di Downton Abbey”) uno stipendio tarato sull’esosità del luogo.
Quindi Ava si trova ad affrontare uno dei grandi problemi (non sono per
niente ironica) del nostro secolo: si lavora, ma quel lavoro non basta neanche a
pagare una stanza microscopica in affitto.
Siccome, a causa dell'estensione di Hong Kong, non si può
fare come a Milano e dire alla gente di lavorare per un tozzo di pane e poi
affittarsi una casa a 80 km, verso la provincia di Sondrio, o direttamente a
Novara in un’altra regione (anche se penso sia critica la situazione degli affitti
anche a Novara a causa dell’esistenza del treno per Milano), la nostra non sa come risolvere questo problema.
Mentre sta lì che
viene maltrattata da ragazzini saccenti, fa pensieri che si traducono talvolta
in telefonate in Irlanda sulla decadenza del capitalismo e su come una laurea, soprattutto umanistica, ormai non sia più un valido ascensore sociale per le classi meno abbienti.
L’unico ascensore sociale che esista ormai è il denaro. Se puoi pagare puoi
avere tutti i lavori affascinanti che vuoi, se non puoi pagare non riesci a
trovare un letto neanche in uno sgabuzzino.
Tutto questo mi era sembrato un ottimo inizio.
Ah, finalmente non ero la sola ad essere arrabbiata,
a notare contraddizioni feroci che, a mio parere, necessitano di altrettanta
ferocia nell’affrontarle!
Poi no. La storia
vira verso storie d’amore. La nostra Ava infatti ha la ventura di essere
abbastanza avvenente e di innamorarsi di gente abbastanza abbiente, prima un
tizio inglese che fa il financial qualcosa, guadagna una barca di denaro in uno di quei
lavori manageriali bancari mai abbastanza chiari a chi disgraziatamente non ha
un MBA da 100.000 euro, poi di una ragazza cinese piena di soldi, ma che ovviamente non
può certo dire ai suoi che ha una relazione con una donna.
Questa seconda parte, che in realtà copre quasi tutto il libro, è narrata con una dovizia di particolari di cui penso nessuno in particolare sentisse la necessità.
Ava si
aggira per l’appartamento di lusso del tizio inglese dove è andata a vivere dopo che lui
opportunamente è stato trasferito per un periodo a Londra. Dilapida i suoi
pochi denari in candele costose, va in giro, fa cose, vede gente.
Quando l’ho terminato
mi sentivo abbastanza irritata. Tutta sta grande indignazione verso un sistema
economico oppressivo, alla fine sembrava dissolta da fortuiti incontri. Una
specie di versione del nuovo millennio delle popolane che trovavano protezione
verso i nobili locali che garantivano loro benessere e una vita migliore, pur
stando sempre attenti a tracciare un solco di classe sociale tra di loro.
Poi dopo un po’ ho realizzato che forse non avrei dovuto attendermi dal libro ciò che il libro non poteva raccontarmi.
Alla fine non risulta che nelle stesse condizioni molte persone della mia generazione si comporterebbero in modo diverso.
Stiamo sempre
lì che un po’ ci lamentiamo, un po’ tiriamo a campare, un po’ diamo la colpa
(intendiamoci, per me in larga parte condivisa) a generazioni che si sono
mangiate tutto e hanno poi creato condizioni socio-economiche da neoschiavitù
distruggendo il lavoro fatto da quelle precedenti. C’è una commistione di
alzolamanismo (cosa posso fare io davanti a tutto questo?) e vittimismo (ah, è
quello che ci hanno lasciato!) di cui ovviamente comprendo le motivazioni e che però non lascia mai spazio ad una qualche
elaborazione successiva.
Ossia, abbiamo
appurato che il sistema che ci hanno mollato non funziona. Cosa possiamo fare
per migliorarlo? Questa parte successiva cade sempre nel vuoto.
Non mi va di scrivere
un post in cui magnifico i miei coetanei o compagn* generazionali che hanno
combattuto e fatto qualsiasi cosa per resistere. Non mi va perché non voglio
utilizzarli come scudo per giustificazioni che mi sono stufata di sentirmi
raccontare, ma anche di raccontarmi.
Brav* loro, ma non basta un piccolo gruppo, per contare e cambiare serve la massa. E la massa dov’è? La massa, dobbiamo ammetterlo, è con Ava a cercare di sopravvivere, a cercare un senso nelle candele costose, a raccontarsi con livore che la propria istruzione senza il giusto denaro dietro a comprare master in università internazionali forse non garantisce l’ascensore sociale.
Il senso di tradimento che proviamo verso il futuro si è trasformato in
livore e non è riuscito a diventare rabbia.
Sono anni che ci rimugino, che cerco di capire quale potesse essere la soluzione, politicamente.
E purtroppo ho capito che senza una reazione di un qualche tipo, un’imposizione, una lotta rabbiosa, di te fanno polpette.
Capisco che non è un
discorso assertivo da fare e che ultimamente dobbiamo essere tutte e tutti
estremamente assertivi, che non dobbiamo cedere alle provocazioni e tante altre
storie fantastiche, ma diciamocelo, non sta funzionando. E forse non funziona
perché la lotta non può prendere quelle strade.
Immagino che parte di questa mia deduzione provenga dal mio vissuto.
Se la comunità Lgbt non fosse lì a combattere tutti i santi giorni per avere diritti, sarebbe schiacciata. Il mio pensiero fisso è che se non combatti tu per i tuoi diritti, non lo farà nessuno al posto tuo. Ed è per questo che mi danno fastidio i vari personaggi famosi che non fanno coming out o pontificano dall’estero: tesoro, tutt* vorremmo avere una vita tranquilla, ma come cantava Bertoli “Non credo alla vita pacifica, non credo al perdono”.
Fare questo discorso sulla rabbia è mooooolto difficile perché c’è sempre il retropensiero che la rabbia sia pericolosa socialmente, ossia che la rabbia si traduca per forza in violenza.
Ergo, dire che sei arrabbiata/o è tipo un’autodenuncia sociale:
ommioddio è arrabbiato, è capace di tutto.
Questo è stato in effetti un enorme deterrente perché chissà cosa potremmo fare da arrabbiati, molto meglio che stiamo buoni e compriamo candele mentre vampirizziamo l’affitto di qualcuno che poi quando gli gira ci butta fuori di casa.
Ma la
rabbia non è solo una forza negativa, uno psicologo utilizzerebbe di certo qualche mito greco per spiegarlo meglio e bene, ma è anche forza generatrice, un sentimento necessario a cui aggrapparci per cavarci da questo impiccio: se si vuole un
mutamento radicale bisogna essere radicali, bisogna ammettere delle rinunce,
bisogna spendere il proprio tempo libero, bisogna confrontarsi e anche
arrabbiarsi sì nel confronto, bisogna scendere in piazza, immaginare,
permettersi di pensare che non è tutto inutile, ma è tutto possibile e che resistere non è un sogno, resistere serve a tutto, anche se nella contingenza si ha la sensazione di aver perso.
Il futuro non è scomparso come noi pensiamo, semplicemente a un certo punto è stato comodo assecondare i nostri foschi pensieri sul fatto che fosse impossibile pensare a un futuro diverso e allora non ci restasse letteralmente che piangere.
E’ un pensiero potente eh, perché se fai un qualsiasi discorso di cambiamento vieni trattato come il cretino di turno, vieni sminuito, vieni preso per lo scemo che crede nelle favole e probabilmente ci crede perché fondamentalmente è un privilegiato.
E’ passato il concetto manipolatorio che chi immagina è
perché non ha problemi, mentre il discorso è che chi non immagina non vuole
problemi.
Ma una vita senza
problemi è la vita che ti viene imposta. Sono lavori qualificati sottopagati,
sono contratti precari che però devi prima pensare a quanto è difficile per il
padrone pagarti (quindi devi ovviamente pensare col cuore in mano prima a lui
che a te stesso, poveretto, tanto te campi d’aria no?), devi pensare alla
situazione geopolitica, alla crisi energetica, a tutto, ma non a quello che
puoi fare per cambiare.
I desideri sono
secondari, dobbiamo stare buoni, dobbiamo essere bravi, dobbiamo comprare
candele, non disturbare e trovare un modo per pagare l’affitto, non finire per strada e guadagnarci uno
specchietto motivazionale su qualche giornale per essere d’esempio: “Faccio 100
km al giorno per lavorare 20 ore a 800 euro e sono FELICE!”.
L’utile servo serve sempre.
Come noterete dalla lunghezza di questo post ci ho
rimuginato davvero tanto, ma disgraziatamente da sola perché i luoghi in cui
bisognerebbe farlo insieme, sembra non esistano.
Ho capito che forse era un’idea condivisa e passibile di condivisione qualche settimana fa, mentre guardavo l’ultima stagione di “Aggretsuko”, un anime geniale sul mondo del lavoro in Giappone che spaventosamente ricalca il nostro mondo del lavoro.
Nella quarta serie addirittura si affrontava il tema del demansionamento e del bossing per costringere alle dimissioni. Nella quinta e ultima, la
protagonista, una mite orsetta lavatora che sfoga la sua rabbia in sessioni di
karaoke metal, viene scelta come candidata nel partito della rabbia.
La metafora non è
neanche suggerita, ma proprio esplicita: una generazione si lamenta che le cose
non funzionano, ma poi cosa fa oltre a lamentarsi? Dov’è la loro rabbia?
E mi sono chiesta, se
è così lampante il problema, perché non accettiamo di discuterne?
Abbiamo un problema con la rabbia generazionale. Dobbiamo accettarla come parte del discorso e motore del cambiamento. Non si cambiano le cose lamentandosi e comprando candele.
Bisogna prenderci quello che è
nostro, strapparlo come fecero i nostri ormai bisnonni, le cose non si
accomoderanno da sole mentre cerchiamo di fare 16 lavori per pagare una stanza
e continuiamo a ricevere lettere dell’Inps in cui si dice che andremo in
pensione a 77 anni.
Non si accomoderà niente da solo e al contempo nulla è ineluttabile.
Quella è solo una fiaba per tenerci buoni, a immaginare, proprio come la protagonista di "Tempi eccitanti", che tutto sommato la vita è bella e che basta trovare la persona con lo stipendio giusto per essere felici e sfruttare gli altri, esattamente come noi veniamo sfruttati, è un modo come un altro per affrontare un problema sistemico.
Eppure se ci soffermassimo a pensare più lucidamente, capiremmo da soli che attivarsi è di certo più sensato di star fermi, che subire e alzare le spalle in segno di resa non può essere la risposta e che la risposta può venire solo da noi.
Ha senso che Ava stia ad Hong Kong a fare la fame fantasticando accademicamente su vaghe teorie marxiste mentre dei ragazzini saccenti mentre la maltrattano?
Ha senso lavorare per non pagarsi neanche l'affitto? Strappare stipendi che sono come briciole? Fare quattro lavori per mantenersi e dover vivere a 80 km dalla città perché non si hanno i soldi neanche per una stanza?
La nostra vita attuale non meriterebbe forse una crisi di coscienza di portata drammatica.
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