Ho sentito lungamente
parlare di "Febbre" di Jonathan Bazzi e, dopo averlo letto, credo
che se ne sia abbondantemente parlato per i motivi sbagliati.
Rozzano |
Mi era stato presentato
come “il libro che finalmente riportava l’attenzione sul grande
rimosso dell’aids”.
Io e Bazzi, che più o
meno abbiamo la stessa età, non abbiamo preso la grande ondata
dell’orrore della scoperta del AIDS che deve aver travolto
l’umanità tutta all’inizio degli anni ’80.
Eravamo
fortunatamente troppo piccoli (il virus è stato “scoperto”
proprio l’anno in cui sono nata) per vedere amici morire a mucchi o
finire nella paranoia del “se dovesse toccare a me” o nell’ondata
di accanimento crescente verso la comunità lgbt.
A casa mia si è sempre
parlato poco di sessualità, nel bene e nel male.
Non credo di aver
mai sentito i miei genitori dire una sola parola contraria, ma (prima
del mio coming out) neanche positiva, verso gli omosessuali. Erano
qualcosa che non li aveva mai riguardati e che, fondamentalmente, non
conoscevano.
Al contrario di molte
persone che non conoscono qualcosa però, non hanno mai pensato né
di denigrare la comunità né di lasciarsi andare a facili
stereotipi. Non sappiamo chi sono e cosa fanno. Punto. Non sono buoni
e neanche malvagi.
Quindi che l’aids fosse stata “la peste
dei gay” l’ho scoperto solo da adulta.
In generale tutto quello
che ricordo sul tema, fino all’età in cui ti convincono a usare i
contraccettivi a tutti i costi se no finirai incinta o morirai male
(dalle mie parti a scuola non andavano tanto per il sottile e ho
avuto signore del consultorio a farci qualche ora scolastica di
educazione sessuale sin dalle scuole medie, infatti non ho mai avuto
una compagna di scuola incinta), si riduce a pochi sprazzi.
1) Mia madre che mi fa fare
il minimo sindacale delle vaccinazioni (genitori vaccinate i vostri
figli) perché aveva 20 anni 20 e al consultorio l’avevano un po’
tanto spaventata dicendo che “In America c’era un nuovo virus che
non si conosceva” e lei aveva pensato bene che quindi meno roba mi
inoculavano, meglio doveva essere (ho avuto la pertosse a 15 anni e
momenti mando all’altro mondo mio cugino neonato: VACCINATEVI).
2) Quelle agghiaccianti
pubblicità in bianco e nero con la gente con l’aura colorata che
se ti toccava morivi.
3) Le vignette di Lupo Alberto.
4) Una storia di Dylan Dog,
“Dopo mezzanotte”, letta a casa di mio cugino, durante la
comunione di un altro cugino, in cui Dylan, rimasto chiuso fuori casa
vaga per tutta la notte tra omicidi, tossici, eroina e bassifondi in
generale.
Ad un tratto finisce a casa di un tizio gay che si
comprende essere malato di aids e, come succedeva in un’epoca
prericerca e medicine ad hoc, era destinato a morire in breve tempo.
Fine.
Potrebbe forse essere sempre più di quello che un bambino/ragazzino medio potrebbe venire casualmente a sapere allo stato attuale.
Col tempo, infatti, la paura, ma
anche la prevenzione, sono diventate una faccenda molto silenziosa.
Esiste sì, ma nessuno ne parla se non sporadicamente, così, de
botto, senza senso, senza un vero perché.
Così, comprendo
pienamente perché si sia parlato di questo libro principalmente per
questo motivo: Jonathan Bazzi è un giovane autore di Rozzano che
racconta di come ha scoperto di essere positivo all’hiv.
Ad un certo punto della
sua esistenza ha iniziato ad avere una febbre persistente e
insistente.
Nulla sembrava farla
passare, niente, innumerevoli analisi non davano risultati che
riuscissero a isolare il problema. Finché.
Onorevole esporsi fino a
questo punto in una società che ondeggia tra un nevrotico
politically correct (che nelle sue derive certe volte finisce per
essere ridicolo) e una becera e cieca vocazione all’insulto e
all’odio.
Tuttavia ammetto di aver
letto le parti dedicate alla scoperta del virus con assai meno
gusto di quelle, davvero bellissime, e che sembrano a tutti gli
effetti un altro romanzo, che ricostruiscono la sua breve vita.
Jonathan Bazzi racconta
una piccola vita in una grande, rumorosa, difficile periferia.
Nasce
da una coppia di genitori molto giovani che si sposano con la
cosiddetta rincorsa (negli anni ’80 era ancora usanza sposarsi
appena si commetteva il fattaccio) e che divorziano con altrettanta
rincorsa.
Rimasto solo con la madre
(il padre, poliziotto, rimarrà sempre presente, ma diciamo a fasi
alterne), insieme tornano a vivere a casa dei nonni, dove vige una
rigida gestione patriarcale della famiglia, col terribile nonno a
capo di tutto.
Rozzano, la periferia milanese dove vivono, è un
posto, a voler esser buoni, molto complicato: difficili convivenze tra
tanti immigrati interni del sud, si uniscono a quel generale senso di
abbandono che caratterizza molte periferie dormitori.
Tanta gente,
pochi servizi, il benessere degli anni ’80, qui rappresentato dalla
vicinanza con Milano 2 e il berlusconismo nascente che dà lavoro a
tanti, compresa la madre di Bazzi, ma che lambisce appena famiglie che
vengono ghettizzate e si autoghettizzano.
Come se non bastasse né
Jonathan né sua madre sembrano essere persone facili.
Sua madre trova un uomo
peggio dell’altro, lui è uno di quei bambini, poi adulti, con dei
tratti vagamente ossessivi: arde di passione per certe passioni
futili che però, nell’immediato, gli portano conforto.
Del resto,
dovremmo provare a esser noi dei ragazzini gay in una periferia
machista degli anni ’90.
Ecco, la storia di
questa sua vita è talmente scritta bene, talmente folgorante,
talmente vera in un mare di finte vite fantasticate (poche cose sono
irritanti come i benestanti che immaginano come debbano essere i
poveri) da rendere questo libro davvero bellissimo.
Il racconto della
malattia è un pretesto quasi inutile e sbiadisce davanti alla
splendida narrazione di un’infanzia e un’adolescenza di periferia
di cui esistono tanti racconti falsi, ora troppo crudi, ora troppo
edulcorati, ora troppo edificanti o didascalici, ora troppo pesanti e
cruenti.
Tanto che forse l’unica parte debole del libro sono
proprio le ultimissime pagine, quando quell'affresco di una vita
come tante, così piccola eppure carica di dolore, forza ed energia,
viene inghiottito dal racconto sul coming out della malattia.
Se c’è una cosa che
questo libro riesce a dire è che le persone sono definite da
laboriosi ricordi e non certo dagli accidenti disgraziati e
occasionali della vita, così il fatto che quel finale sull’Hiv/Aids
venga considerato superfluo è una schiacciante vittoria.
Al lettore non interessa
niente del perché e del per come Jonathan abbia deciso di parlarne
(anche se questo ovviamente non vuol dire sminuire la portata di un
gesto enorme), vuole solo conoscerlo ancora ancora e ancora meglio.
Ed è questo che fa la
differenza tra un narratore occasionale e uno scrittore.
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