mercoledì 20 settembre 2023

Dove siamo finiti tutti? Una recensione di "Doveva essere il nostro momento" di Eleonora Caruso, tra colpe che è ora di prenderci, pensiero magico e sette in cui non sappiamo di vivere

 Anni fa, prima che Eleonora Caruso pubblicasse “Le ferite originali”, scrissi una recensione sul suo primo libro: "Comunque vada non importa", Indiana Editore.

 Il titolo del post “Dove eravate tutti” era risposta e domanda che veniva da una storia in cui finalmente qualcuno raccontava con una dose di verità l’adolescenza e la giovinezza di quella che pensavo e tuttora penso essere una parte consistente della società italiana: i millennial nati non benestanti.

 I non benestanti non sono “i poveri”, categoria invece amatissima da scrittori, registi e sceneggiatori che, quando non si occupano di gente che ha accatastato almeno 7 immobili di pregio, amano ravanare in vicende sulle soglie dell’indigenza, anzi peggio, dell’indigenza come se la immaginano.

 I non benestanti sono quella parte di società, di cui io anche ho fatto e faccio parte (ora non ho nessun immobile accatastato, comunque) e che prevedeva genitori lavoratori, ma senza aiuti, provenienti da un hummus sociale assolutamente non degradato, ma che già vedeva con difficoltà l’acquisto di libri per la scuola, scarpe nuove e l'affitto.

 Sono quella fascia sociale che è esistita, esiste, ma se ne parla poco da qualche decennio a questa parte, come se di colpo fossimo tutti diventati benestanti, non esistessero più le difficoltà finanziarie, fossero stati appianati i limiti economici, dalle cure allo studio, e lo stato del benessere potesse essere misurato su soli criteri fenotipici (che non a caso sono quelli che interessano gli ossessionati dalla fuga dal ceto sociale come vergogna e rivalsa, aka tutti quegli inutili orrori trapper, che oh sarò vecchia, ma voglio essere libera di dire che mi fanno schifo), come la macchina, il vestiario e le vacanze in posti esotici.

 Esistono i benestanti ed esistono gli indigenti, tutti gli altri sono spariti.

 Questa premessa è doverosa per capire questo libro che è estremamente generazionale, nei deliberati intenti, nel titolo, nello svolgimento e financo nel finale e conferma la domanda che feci nel titolo del post tanti anni fa.

Se prima mi chiedevo “Dove eravate tutti?”, ora mi chiedo “Dove siamo finiti tutti?” a livello di rappresentazione sociale, politica, letteraria e artistica.

Con “Doveva essere il nostro momento” Eleonora Caruso cerca di colmare ancora una volta questo vuoto.

 I trentenni (ormai talvolta quasi quarantenni) che leggiamo e vediamo su Netflix non siamo quasi mai noi.
 Non abbiamo quelle case, non abbiamo quei lavori e se anche li abbiamo non possediamo mai le disponibilità economiche mostrate perché gli stipendi sono irrisori anche a fronte di lavori iperqualificati, anzi, spesso in campo umanistico più sono iperqualificati, peggio sono pagati.

 I protagonisti del libro, che sono tre, rappresentano in tre diverse forme la pessima deriva di una generazione, quella dei millennial, nata con alcuni ottimi propositi inculcati con una certa veemenza sin dall’asilo: la pace nel mondo, l’uguaglianza, la fratellanza tra i popoli.

 Questi propositi sono diventati molesti a livello geopolitico all’altezza dei primi anni 2000, quando si sono intersecati con le crisi migratorie e una "globalizzazione" che in realtà era solo sinonimo di liberismo sfrenato e regolamentato in cui ingoiare alla cieca tutto il mondo.

 I ggggiovani non possono ricordarlo, ma noi non eravamo così. La gente già moriva in mare, ma non c’era l’idea che se lo meritassero e anzi c’era una certa propensione a volerlo affrontare questo problema, anche criticando il modello economico proposto.

 Poi catastrofi a catena. Genova, (ma non solo, Genova è stata la punta dell’iceberg della demonizzazione di un intero movimento politico e di pensiero), l’11 settembre, la crisi economica del 2008 e l’immissione pervicace di contratti precari sempre più fantasiosi e privi di diritti.

 Se ti trovi a 25 anni con una laurea e nel mentre ti hanno cambiato le regole sotto i piedi, la professione per cui hai studiato è sparita e il massimo che ti propongono per campare sono 300 euro di rimborso spese per 40h di lavoro, hai molto altro a cui pensare.

 Eppure, non sono giustificazioni perché è necessario ammettere che abbiamo solo subito e non abbiamo mai agito. 
 Abbiamo permesso che ci facessero tutto questo senza protestare, attendendo un immaginario turno che non esisteva, insultati da generazioni precedenti che avevano ottenuto con molto meno, incredibilmente di più.

 Insomma, siamo diventati una generazione che non ha saputo trasformare la rabbia in una protesta generativa, ma ha finito per soccombere a un livore tanto livido, quanto inutile. 

 Regà, ce la possiamo raccontare come ci pare, anche io dovevo portare la pagnotta a casa per vivere, ma il disinteresse per la politica istituzionale e il vivere tutto come un affronto e mai come un “ora mi sono rotto e FACCIO qualcosa che cambi le cose” è innegabile.

 Finalmente un libro racconta TUTTO questo: le nostre colpe generazionali, i tradimenti che abbiamo subito, la nostra incapacità di farvi fronte preferendo rifugiarci in una sorta di pensiero magico pericolosissimo in un eterno ritorno all’unico periodo carico di promesse che abbiamo vissuto: l’adolescenza.
 
 I protagonisti del libro, come dicevo, sarebbero 3, ma il protagonista vero è Leo, un millennial talmente tipico che ne conoscerete a bizzeffe anche voi, se non siete voi.

  Famiglia troppo modesta per riuscire a diventare un meme del Corriere della Sera in cui si spiega come con 10 euro (e 10 milioni di euro del papi) si è costruita la propria azienda, si è diligentemente laureato per finire in quella che Eleonora Caruso definisce il posto dove sono finite le migliori menti della nostra generazione: le agenzie di comunicazione di Milano.

 Lì, ha subìto quello che abbiamo subito in tanti (me compresa): si è bruciato a causa dell’superlavoro, dell’insensatezza ad esso connessa, dell’inutilità di un sistema che nutre idoli social che muoiono nel giro di qualche anno.  

 La storia prende le mosse dalla decisione di Leo di partire per la Sicilia alla ricerca di un suo vecchio amico, Simone, finito in una strana setta composta da millennial che hanno deciso di vivere come negli anni ’80-’90. 

 Vedono solo programmi e film di quegli anni, leggono fumetti e libri pubblicati fino a quel momento lì, tengono gruppi di lettura su “No logo” di Naomi Klein e ovviamente non hanno social, internet e tecnologia annessa e connessa posteriore al 2001.

 Il capo della setta è il misterioso Zan, un ex moderatore di contenuti social, lavoro che sfonda la distopia (ed esiste sul serio, ne avevo già letto su “La valle oscura” di Anna Wiener) e prevede che degli esseri umani guardino in loop video che non rispettano gli standard dei social (violenti, pornografici, pedopornografici, incidenti auto ecc) per poter nutrire l’algoritmo con i giusti input di discernimento (che a noi piace pensare ad esempio che le AI pensino, ma siamo noi che le nutriamo).

 Devastato da questa esperienza e comprensibilmente certo che tutto ciò che è accaduto dopo il 2001 sia da depennare come la catastrofe e il male, ha fondato questa setta in Sicilia. 

 Leo ci rimane qualche mese finché, a un certo punto capisce che è il momento di partire e se ne va per tornare al nord.

 Si unisce a lui Cloro, un’ex influencer bambina che, una volta cresciuta, non sta riuscendo a mantenere gli standard richiesti dai social e sta vedendo la sua stella declinare. 

 Completamente bruciata da un’esistenza sovraesposta, ha più strumenti per capire il mondo virtuale di quello reale, nel quale si muove a caso, con affanno e senza mai riuscire a decodificare realmente persone, rapporti e contesti.

 La storia, tra flashback personali e sulla setta, si svolge nel loro viaggio on the road dalla Sicilia alla Lombardia alle soglie del lockdown. Menzione d’onore peraltro ad un uso sensato a livello narrativo del Covid, evento che sembra praticamente non essere esistito, esattamente come la generazione dei millennial.

 Il romanzo, al netto della sua trama, finalmente dice quello che onestamente sono anni che spero qualcuno dica fuori dalla mia testa sulla nostra generazione, sui suoi sbagli, le sue paturnie, le sue inutili ironie social che sono tanto appaganti personalmente, ma assolutamente inutili a livello politico e collettivo.

 Racconta di venti anni perduti, in cui “doveva essere il nostro momento” e siamo solo riusciti a intraprendere una variante allucinogena della perdizione delle generazioni precedenti.

 Se genitori e (ormai talvolta anche i nonni) non sono riusciti effettivamente a cambiare il mondo è stato per quell’effetto Venditti che canta: “Compagno di scuola, compagno di niente, ti sei salvato o lavori in banca pure tu?”.  
 Per dirla meglio: il sistema li ha assorbiti e da incendiari si sono fatti pompieri custodi dell’ordine.

 Ma la nostra generazione non ha fatto neanche quello. 
 Il nostro momento è passato e non lavoriamo neanche in banca, il sistema non ci ha assorbito perché gli costa molto meno opprimerci e sfruttarci, tanto stiamo zitti, maciniamo livore e non diciamo niente.

 Non siamo diventati socialmente e politicamente adulti, siamo ancora lì, nell’adolescenza ipertrofica che non riusciamo ad abbandonare.

 C’è un momento per me chiave nel romanzo che sembra quasi passare inosservato, ma per me dice tutto. 
 Leo sta per andare via dalla setta e va in cerca di Simone che sta tenendo un gruppo di lettura su “No logo”.
 Leo lo vede e Caruso scrive: 
"Potendo farlo, ognuno tornerebbe al punto della propria storia in cui è stato più felice. Per Simone quel punto era il liceo nel 2001, nonostante tutto, la foto di classe in cui indossavano la kefiah e i tentativi fatti di convincere sua madre a mandarlo a Genova per il G8. Diceva sempre che non esserci stato era il suo più grande rimpianto. Come si potesse rimpiangere di non essere stati torturati nella palestra di una scuola era un mistero per Leo, ma che ne capiva lui?"
 Ecco, siamo mentalmente incollati a quel momento, il più felice della nostra vita, quello in cui tutte le promesse tradite sono ancora intatte. 

 E rimaniamo aggrappati alla nostra adolescenza di fine anni ’90 in un loop eterno che ha molto a che vedere col pensiero magico di Didion: un giorno, sembriamo dirci, tornerà quel momento, quell’esatto momento, e noi saremo felici.

 Il capitalismo l’ha capita questa cosa, e per tenerci buoni ci nutre di quest’illusione proponendoci solo il passato (merendine che tornano sugli scaffali, serie tv rifatte in mille salse, cinema che non inventa niente di nuovo): vieni, illuditi di poter tornare al momento più felice della tua vita e intanto, mi raccomando, non dare mai fastidio perché l’importante non è cambiare il mondo, ma aspettare supinamente la fine del mondo in cui non ti riconosci.

 Siamo nella setta di Zan ed era ora che qualcuno lo dicesse.


Ps. Sono perfettamente conscia che non è che siamo stati del tutto inermi e alcune cose, con le nostre possibilità, le abbiamo fatte. Tuttavia credo sia necessario ammettere tutto quello che NON abbiamo fatto e che ci ha portato ad accettare cose inaccettabili: lavorare senza essere pagati, contratti che avrebbero meritato le barricate, incapacità di incidere sulla politica istituzionale perché per vedere un* millennial che conta qualcosa in politica abbiamo dovuto aspettare il colpo di mano di Schlein all'alba del 2023. Se non partiamo dalla consapevolezza del fatto che "doveva essere il nostro momento" e non lo è stato anche per colpa nostra, non ne usciremo MAI.

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