venerdì 6 maggio 2016

Capirai quando sarai adulto. Il mondo è anche un posto difficile, è giusto nasconderlo ai bambini? Tre letture per parlare ai pargoli di guerra, sessismo e uso distorto del denaro.

 Era un bel po' che volevo fare un nuovo post sui libri per bambini, ma al solito, non essendo il mio settore, non avendo figli e non sapendo bene dove mettere le mani, ho preso quei due o tre mesi di tempo.
 Alla fine mi sono fatta coraggio ed è venuta fuori questa mini selezione che però ha un filo conduttore: temi complessi che però è giusto e doveroso vengano presentati, con le dovute cautele e il necessario linguaggio, ai bambini.
 Non sono una pedagoga e non ho neanche l'aspirazione di esserlo, ma forse perché ho molti ricordi di quello che pensavo nella mia infanzia, delle cose che non capivo e delle ingiustizie che sentivo di subire (diciamo che non essere una bambina appassionata di cose ritenute da bambina ha peggiorato la situazione), penso sia necessario dare alla pargolanza delle chiavi di lettura della realtà adatte alla loro età.
 Il vecchio sistema del "lo capirai quando sarai adulto" a me è sempre parsa una grande idiozia.

Let's go!


COME COPERTA IL CIELO di Lara Albanese e Fuad Aziz ed. Jaca Book:

 Dopo gli attentati in Belgio mi è rimasto impresso un articolo su una madre che chiedeva scusa al figlio, bambino, per non avergli parlato della guerra, credendola ormai sepolta dai libri di storia e dalle gloriose imprese dei nostri nonni e bisnonni che hanno dato la vita per un'Europa libera.

 Ho cercato di ricordare se mai da bambina qualcuno mi avesse parlato della guerra e ho ripensato al conflitto nella ex Jugoslavia all'epoca in corso di cui, in effetti, avevo un'idea estremamente vaga. 
 Tutto quello che ricordo era l'idea che ci fosse una guerra molto vicina (fatto vero), che prima o poi sarebbe arrivata da noi (fatto falso) e che non sarebbe mai finita (fatto falso bis), come se nei balcani ci fosse una sorta di conflitto eterno a cui dovevamo abituarci, come il sole che sorgeva.
 La maggior parte delle informazioni da me ricavate provenivano dalla tv che si guardava a pranzo a tavola e dalla presenza in quel di Roma di numerosi profughi bosniaci che, figlioli al collo, esibivano dei cartelli con scritto che erano profughi del conflitto e in cerca di asilo.


Tra l'altro l'attuale edizione in commercio
è misteriosamente per adulti e non per YA
Non ricordo né grandi spiegazioni in merito né elaborazioni di un qualche tipo, l'unica volta che se ne parlò fu quando mio zio, militare, ci spedì un'assurda cartolina dalla sua missione all'estero in Bosnia su cui troneggiava un'improbabile foto di Sarajevo bombardata.
 Un libro che contribuì a formare una vaga idea di quello che era il conflitto fu il celebre Diario di Zlata di Zlata Filipovic, in cui una ragazzina racconta l'incomprensibile passaggio da una vita normale a un'esistenza da civile in guerra. 
 La cosa che più mi sconvolse fu scoprire che l'ex Jugoslavia non era un paese dalla guerra eterna, ma che aveva avuto un prima assai simile alla mia vita e un durante che l'aveva stravolta. Zlata non era stata sempre una profuga in metropolitana, Zlata era stata anche come me.
 Ecco, io non sono una pedagoga e ovviamente ci saranno dei libri e delle indicazioni didattiche su come parlare di guerra ai bambini, perciò non do certo indicazioni in merito, se non il mio personale parere: la guerra esiste e i bambini lo devono sapere, tanto, in realtà, lo sanno già, solo che se nessuno gliela spiega nel loro cervello diventa una roba assurda e ancora più mostruosa.

 C'è un bel libro della Jaca Book "Come coperta il cielo" che racconta l'infanzia di Sami, ormai anziano astronomo di successo che vive in Inghilterra. 
 Sin da bambino amava le costellazioni che sua nonna gli aveva insegnato a riconoscere e sin da bambino viveva in un paese che conosceva una guerra eterna (nella storia non viene esplicitato, ma la trama prende spunto da un fatto realmente avvenuto a Gaza).
 Gli unici squarci di felicità erano i momenti in cui guardava le stelle e il momento in cui un cugino tornò dall'Inghilterra con un telescopio per osservare il cielo diventa l'occasione per formare un rudimentale circolo di ammiratori delle galassie.
 Il cielo è grande, l'azzurro profondo, ma basta ad allontanare davvero la guerra attorno?

 Un libro per parlare di qualcosa che purtroppo è lì fuori e che i bambini, anche se apparentemente stanno  zitti e buoni, vedono anche se non chiedono.

LA GRANDE FABBRICA DELLE PAROLE  di Agnès de Lestrade e Valeria Docampo ed. Terre di mezzo:

 Dicono che più fai figli da adulto più paure ti vengono e più problemi ti fai a farne, perché, ormai non è più come quando hai vent'anni, a trenta e passa hai giù un'idea molto chiara di quanto il mondo possa essere cattivo, quanta ingiustizia ci sia e quanto l'idea di riuscire a cambiarlo sfiori la follia.

 Ogni epoca ha avuto i suoi problemi, non ho nessuna mitica età dell'oro in testa, ma la crescente centralità del denaro nell'impostazione delle società inizia a diventare un mostro inquietante che rischia seriamente di trascinarci nell'abisso. 
 La povertà è diventata una vergognosa cosa da nascondere e ormai ha i contorni, oltre che dello stigma sociale, anche del peccato capitale.

 Poche cose sono peggiori che mostrarsi povero, è il motivo per cui si disprezza chi lo è, si prende per imbecille (o komunista reo di tutti i pekkati komunisti dai gulag alla rivoluzione culturale in Cina) chi osa dire che la nostra società non è egualitaria, per cui imbonitori che ti convincono come ripetere a ruota che la tua vita dipende solo da te (pare irrilevante nascere figlio di un disoccupato o di un industriale) non vengono presi per ciarlatani, ma vendono anzi, quintalate di libri di leadership.
  E' il motivo per cui uno spaventoso milionario sta per mettere la ciliegina sulla torta nel sistema capitalista più avanzato della storia (e non capisco come possiamo stupircene).

 Proprio per questa centralità del dio denaro, ho sempre trovato strano che se ne parlasse poco ai bambini, come se non esistesse.
  Certo, lo trova strano anche in "Padre ricco, padre povero" Robert Kiyosaki, un giappoamericano milionario che scrive libri su come diventare avanzati capitalisti fregandosene del prossimo (insomma, se il prossimo ci tenesse davvero alla sua esistenza, diventerebbe milionario anche lui, no?), che nel libro teorizza un'educazione in campo economico sin dall'infanzia. Tuttavia lui lo fa per piantare piccoli semi di futuri milionari, io lo penso perché non c'è niente di più sbagliato che arrivare all'età della ragione senza conoscere il nemico.

 Tuttavia, la domanda è lecita: come parlare di denaro e delle sue distorsioni ai bambini?

 In "La grande fabbrica delle parole" di Agnès de Lestrade e Valeria Docampo raccontano di un mondo dove le parole si commerciano: i barboni si arrabattano per le strade a trovare quelle più povere, quelle di moda vengono vendute nel periodo dei saldi, i più ricchi possono permettersi le più pregiate, mentre i meno benestanti devono accontentarsi di quello che riescono a comprare.
 Il problema è che le parole, come diceva Nanni Moretti, sono importanti, è fa molta differenza poter dichiarare il proprio amore usando parole poetiche, declamazioni flautate e poderosi ti amo. Come può un bambino, vincere contro questo florilegio lessicale se tutto quello che possiede è la parola "seggiola"?
 Forse il segreto sta nel modo in cui si dice e nell'amore che ci si mette pur non avendo i mezzi per esprimerlo. Una metafora splendida, per preparare i bambini al mondo e dare loro le prima armi arrotondate per combatterlo.

STORIA DI GIULIA CHE AVEVA UN'OMBRA DI BAMBINO di Christian Bruel e Anne Bozellec ed. Settenove:

 Lo abbiamo ripetuto fino alla nausea: in che  modo possono esistere dei giocattoli da maschio e da femmine?

 Perché dobbiamo ancora infliggere ad altri bambini l'insensatezza che è già stata inflitta a noi nel vederci recapitare giochi di cui non ce ne fregava niente, ma che venivano giudicati convenienti in base al nostro sesso d'appartenenza?
 Perché rifilare a forza surrogati di vita materna e casalinga a bambine di tre o cinque anni se esse non manifestano interesse per bambole, carrozzine, scope, scopini e ferri da stiro (se invece li bramano per imitare la mamma o per loro gusto benissimo)?
 Perché bambini maschi di tre anni si ritrovano con finte cassette degli attrezzi comprate all'ikea e macchinine se invece preferirebbero appassionarsi di libri sulle fate (anzi più bramano le fate più, per reazione, gli si rifilano giochi da "vero maschio")?

  I bambini non sanno che i giocattoli sono da maschio o da femmina, bramano ciò che gli piace e trovano interessante (basti pensare ai bambini maschi che per la prima volta nella storia amano un personaggio femminile di un cartone animato: la principessa Elsa, che invece di frignare e spazzare la casa dei sette nani, crea palazzi di ghiaccio e gormiti di neve).

Ho sempre trovato estremamente violento imporre a un bambino vestiti e giochi in base al suo sesso d'appartenenza (sì, violento, me lo ricordo io quanto volentieri avrei bruciato le gonne e le calze che mi costringevano a infilare a dieci anni) e questa violenza viene espressa perfettamente in questo storico albo edito nel 1975 e ora ristampato finalmente dalle edizioni Settenove.

 La storia vede Giulia, una bimba che ama giocare, rotolarsi nella terra, fregarsene dei vestitini e dei capelli a modino che per questo si vede perennemente rimproverata al suo di "Sei un maschio mancato"!
 A furia di sentirsi dare del maschiaccio, una mattina si sveglia con una curiosa ombra da bambino maschio che si rifiuta di comportarsi come lei e segue pedissequamente le orme dell'altro sesso.
 Com'è possibile? E perché nessuno se ne accorge?
 La storia ha vette di poetica tristezza, quella tristezza dei bambini di cui nessuno parla, come se fosse inconcepibile pensare un bambino infelice (o se fosse concepibile collegare questa tristezza solo a fatti che noi adulti consideriamo drammatici, sminuendo tutto quello che ci appare risibile).

 Alla fine Giulia incontra un bambino maschio col suo stesso speculare problema e in due si raccontano la comune incomprensione: perché gli adulti si accaniscono su di loro?
  Perché non li lasciano in pace? Perché avere la gonnellina e i capelli in ordine sembra di così vitale importanza? Non dovrebbe esserlo, assai di più, il fatto che siano felici?

 Uno di quei libri per bambini che dovrebbero leggere gli adulti, per ricordare le ferite dell'infanzia e avere un'idea di cosa significhi sentirsi inadeguati in un mondo che ti accetta solo se segui la norma.
 E' più importante seguire le regole imposte o crescere bambini felici? E cosa fare quando le due cose non coincidono? Io direi, per prima cosa, un bell'esame di coscienza.

3 commenti:

  1. Giusto ieri sera ho affrontato questo discorso con una mamma mia conoscente (e non molto brillante). La figlia, avendo ormai cinque anni, vorrebbe iscriversi a una squadra di calcetto con i suoi amici.
    La mamma, facendo una scena della malavita, dice che il calcio è uno sport maschile, che fa venire le gambe e i polpacci grossi, che appiattisce i piedi, e fa diventare mascoline e sgraziate.
    Vorrebbe pertanto cacciare un mucchio di quattrini per costringere - perché di costringere si parla - la bimba a frequentare una scuola di danza classica.
    Ora: io non vedo violenza peggiore di costringere una bambina a dedicarsi a un hobby che odia, e per di più uno degli hobby che richiede più sacrifici sulla faccia della terra.
    Le ballerine di danza classica sono costrette ad allenarsi per ore e ore tutte le settimane, e a farlo mangiando pochissimo, e se cominciano da piccole è in larga parte per questo motivo che restano molto basse. La loro reputata grazia, scese dalle scarpette diaboliche, finisce in malora: sono tutte piccole, magrissime, incassate nelle spalle, con gambe troppo sviluppate rispetto al tronco, e a X (credete forse sia per via dell'età che Carla Fracci indossa sempre gonne lunghe fino ai piedi?).
    I loro piedi sono storti, iperarcuati, con le unghie incarnite e gli alluci valghi. Hanno in linea di massima pochi capelli, sciupati dalle lacche e dalla sottonutrizione.
    Perché costringere una bambina a un'ordalia del genere, alla quale non è minimamente interessata, per stupidi pregiudizi di genere?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Io sono stata costretta a fare atletica per un po' di anni perché mia madre la praticava da giovane, avrei tanto voluto fare pallavolo, ma la suddetta madre si opponeva perché diceva che era una sorta di sport per smorfiose (vai a capire).
      Lo sport è una cosa molto personale e non ho mai capito il senso del costringere ragazzini e ragazzine ad andare due o tre volte a settimana a fare una cosa che ok, fisicamente è ottima, ma se non piace è una noia mortale. 'Sta mania delle madri per la danza poi, mi è ulteriormente misteriosa: è femminile perché c'è il tutù? Anche secondo me è molto pesante a livello fisico. Se piace nessun sacrificio sembra tale, altrimenti è una tortura immotivata.

      Elimina
    2. Io ero costretta a fare pallavolo, pensa te, per evitare che il nuoto mi facesse venire le spalle e il fisico da nuotatore; solo che essendo goffissima e orba come una talpa, ovviamente facevo schifo. Fare schifo in uno sport di squadra ti espone alle prese in giro della squadra: era orribile.
      Invece nuotando anche uno agile come Pippo può farsi valere (sembra strano, ma non serve vederci bene, non puoi cadere, non puoi inciampare, non puoi sudare) ed era questo che mi piaceva molto.
      I genitori sono molto spesso indecifrabili ai bambini.

      Elimina

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...