martedì 17 maggio 2016

Il senso della discriminazione per Chimananda Ngozi Adichie in "Americanah". Perché le minoranze non si sentono tutte sulla stessa barca? Una riflessione sul razzismo, l'orgoglio, un malinteso senso di superiorità e il nostro unico comune tiranno.

Avevo sentito parlare lungamente e molto bene di Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice nigeriana trapiantata in america e poi di nuovo in Nigeria.
 Non ho mai letto molta narrativa africana original e la considero una grossa lacuna, perciò per una volta che me ne sono ricordata (visto che ho una wishlist, ma come tutte le persone disorganizzate, è appuntata solo nella mia testa e facile all'oblio), ho preso in biblioteca "Americanah", un sontuoso (sontuoso è la parola che più mi pare si avvicini alla scrittura della Adichie) libro su uno di quegli amori che non finisco, fanno dei giri immensi e poi ritornano.

  Per la serie, Venditti non lo sa, ma potrebbe avere un mercato anche in Africa.
 L'autrice offre un interessante scorcio (spacciato per motivi misteriosi nella quarta di copertina come una sorta di saga familiare) di una giovinezza molto speciale, quella di Ifemelu brillante studentessa nigeriana, innamorata e fidanzata sin da giovane con un suo coetaneo altrettanto brillante e di buona famiglia che vive molto felicemente la sua adolescenza in quel di Lagos, Nigeria.
 Probabilmente anche per il ceto sociale abbastanza elevato dei personaggi e sicuramente per una scelta stilistica, l'elemento folklore rimane sullo sfondo risultando una storia estremamente familiare nonostante la mania nigeriana dell'infilare cocco in ogni piatto, dolce o salato che sia (ecco un libro che non mi ha fatto venire voglia di assaggiare la cucina locale).

 I giovani nigeriani benestanti non hanno una vita molto diversa dai loro coetanei europei, o meglio ce l'hanno, ma le aspirazioni, le dinamiche sociali, le amicizie e gli amori, sembrano, almeno sulla carta, molto più simili, di quelle di altre società esotiche, Giappone o Cina per dire.
L'autrice
 La trama prende le mosse quasi dal termine della storia andando a ritroso con un lungo flashback: Ifemelu è ormai una donna over 30 che vive facendo la blogger (quindi, speranza, qualcuno ce la fa) negli Stati Uniti.
   La sua grande intuizione che poi è il vero filo conduttore dell'intero libro, molto più dell'esile storia d'amore, è l'aver creato uno spazio virtuale dove discutere del razzismo in America (facendo anche confronti dell'Europa).

 Non tanto il razzismo evidente che vede la polizia statunitense saltare come un picchio alla vista di un giovane di colore perché potenzialmente sospetto il decuplo di un suo coetaneo bianco, ma, quello di una supposta supremazia culturale e sociale bianca, ben più strisciante. 
 Quella, che, per dire,  costringe le donne afroamericane a stirare con dannosi prodotti chimici i loro splendidi capelli (perché nessuno ti assumerà se sei troppo afro), che ti rende, nella percezione comune automaticamente più selvaggia, erotica e in un certo qual senso disponibile.
 Altro fattore di enorme interesse è la diversa percezione degli autoctoni americani verso gli afroamericani e gli africani original (diversa percezione che hanno in realtà tra loro anche i due gruppi, spesso diffidenti tra loro).

  Gli afroamericani sono nati e cresciuti in un contesto di discriminazione che li ha resi automaticamente guardinghi e vittime di un sistema, mentre verso chi giunge da esterno, da un luogo, soprattutto, dove questa discriminazione non esiste (ma mi ha stupito scoprire che i nordafricani discriminano gli africani subsahariani per via della loro carnagione scura) l'atteggiamento è diverso, come se essi godessero di uno speciale status, assai più eguale.

 Come se il rapporto di potere fosse bilanciato automaticamente in modo diverso.
Oltre le storie d'amore che la protagonista, (immagino ispirata in modo non velatamente autobiografico alla scrittrice), ha, oltre il filone familiare che riguarda in realtà una zia nigeriana trasferitasi col figlio piccolissimo negli Usa, oltre il mondo snob e intellettuale delle università americane, il vero nodo di questo libro non è né l'amore né la famiglia, ma il razzismo nell'America contemporanea visto da un outsider.

 Anche per questo, quello che in verità mi ha colpito di più è come l'autrice non abbia la minima percezione del fatto che il razzismo sia solo una delle svariate forme (ovviamente con peculiarità, ragioni e conseguenze proprie) di un problema che riguarda tutte le minoranze: il rigetto che ha la maggioranza verso ciò che considera diverso e perciò destabilizzante verso l'ordine.
 La Adichie considera, da una parte ovviamente a ragione, ma da un'altra completamente a torto, il percorso del razzismo americano verso gli afroamericani una discriminazione che nulla ha a che spartite con le altre (ogni tanto cita i latinos random).
La cosa mi ha estremamente colpito, soprattutto perché nella parte finale propone al lettore una sorta di questionario in cui fa varie domande, tra cui:

 "Se fate parte di un circolo prestigioso, vi chiedete mai se la vostra razza può rendervi difficile l'ammissione?
Temete che i vostri figli non abbiano libri e materiale didattico che rappresentino persone della vostra razza?
 Se accendete la tv su un canale generalista o aprite la prima pagina di un giornale generalista, vi aspettate di trovare soprattutto persone di un'altra razza?
 Se avete risultati positivi in una certa situazione, vi aspettate di essere additati come esempio per la vostra raazza? O di essere definiti "diversi" rispetto alla maggioranza delle persone come voi?
 Se avete bisogno di un aiuto legale o medico, temete che la vostra razza risulti un fattore negativo?"

La cosa migliore del libro sono i finti post del blog
di Ifemelu: "Razzabuglio" che parlano di una serie
di questioni legate al razzismo in America, almeno
a me, ignote. Un post interessantissimo è su Obama
(nella parte finale si parla molto della sua candidatura):
 "Obama può vincere solo se rimane il Negro Magico".
Cos'è il negro magico? Se leggete il libro, scoprirete
che è esattamente l'immagine che Hollywood passa
degli afroamericani nei film.
 Le mie risposte ovviamente erano no. Non sono mai stata discriminata per il colore della pelle. ma potevano essere sì se a "pelle" si sostituiva "orientamento sessuale"
 Mi sono domandata perciò, da minoranza a minoranza, se questa riflessione fosse effettivamente presente nell'ambito di chi è discriminato per motivi razziali. Me lo sono domandata anche in nome di quella cosa che sbalordisce spesso molti: come può una persona di colore in America essere contro i matrimoni gay?
 Come può chi è vittima di discriminazione essere contro altre vittime (peraltro perseguitate dallo stesso sistema di potere)?
 La mia risposta, leggendo il libro dell'Adichie, ottimo dal punto di vista della scrittura, è che questa riflessione manchi totalmente, manca, effetti, la sensazione di essere prosaicamente tutti sulla stessa barca e di avere un unico nemico, quello che Tim Robbins aveva ben inquadrato, "La tirannia della mente ottusa".

  C'è chi è appartiene a una minoranza meno visibile (gli omosessuali appunto) e quindi ha cercato di percorrere la storia nel modo più segreto possibile, e chi, per ragioni evidenti, come gli afroamericani, sono state un bersaglio visibile e ben più aggredibile.
 La matrice però, è sempre la stessa: il desiderio perverso di individuare una parte più debole, il capro espiatorio di una società, quello che si carica, per il sollievo della maggioranza, del male contenuto nel mondo. E' la via più sciocca e potente per non occuparsi mai davvero dei lividi del mondo, quelli veri.

 Ho trovato, in questo libro splendido eh, degno di essere letto perché scritto in modo superbo, coinvolgente e profondamente interessante, questa mancanza di riflessione una lacuna davvero imperdonabile.
 Come può un personaggio che scrive per anni un blog sulla discriminazione, che si sforza di conoscere un altro mondo, che si confronta e riflette, non parlare chiaramente del punto focale della questione?
 In verità, una mezza idea sul perché questo accada, ce l'ho e secondo me è molto chiara nella parte più riuscita del libro, quella in cui Ifemelu, tramite il suo fidanzato Blaine, affascinante appartenente alla cerchia universitaria più uptown del mondo, entra in contatto con l'intellighenzia americana, quella casta di eletti che si frequentano solo tra loro, si capiscono solo tra loro e si considerano, soprattutto, tremila metri sopra tutti gli altri.

 Gente che: il mio analista, il mio agente letterario, il premio Nobel per cui faccio l'assistente, il regista per cui sto girando, il film che sto producendo.

 In questa crema, Ifemelu fa la sua figura, ma ha anche una fiera antagonista: Shan, la bellissima e straordinaria sorella di Blaine, così descritta:

 "Quando Shan entrava in una stanza, tutta l'aria scompariva. Non respirava profondamente; non ne aveva bisogno. L'aria fluttuava semplicemente verso di lei, attratta dalla sua autorità naturale, finché non ce n'era più per gli altri. [...]
 Aveva l'aria di una persona che era stata in qualche modo prescelta. Qualche divinità le aveva poggiato sopra la sua bacchetta magica; se lei faceva cose ordinarie, diventavano straordinarie."

 Si capisce, tra le righe, che Ifemelu non la sopporta non tanto perché Shan è una creatura catalizzatrice volontaria (e involontaria) di attenzioni ed eventi eccezionali, quanto perché non le ruba la scena. Non è più lei la persona eccezionale della situazione.
Ifemelu entra a far parte dell'esclusiva élite
 universitaria di Princeton
 Il fastidio che Shan le provoca è interessante perché lasciato in sottotraccia, quella tipica sottotraccia che vorremmo tutti non si notasse quando siamo invidiosi a morte di qualcuno ma cerchiamo disperatamente di fingerci superiori.
 Oh, io della Adichie non so molto, ma a me sembrano pennellate troppo precise per non vederci un fondo di autobiografia, perciò credo che il vero motivo della mancanza della suddetta riflessione sia il rifiuto di mostrarsi deboli.
 Tutto in questo libro grida fierezza: la scrittura, l'orgoglio e un'autostima piuttosto imponente della protagonista, lo spirito critico mai domato (e mai soggetto a dubbi) che accompagna il progredire della sua esistenza.
 Per paradosso temo che la Adichie sia caduta nello stesso peccato di cui incolpa gli altri: non ha voluto mettere in comune il proprio stato di minorità assieme a quello degli altri perché non si sente come loro. Si sente meglio di loro.

 Detto ciò, questo libro stramerita di essere letto, perché è scritto benissimo e solo un libro davvero bello può dare adito a tutte queste riflessioni.
Questo è il mio pensiero dopo averlo lasciato decantare un po', se lo avete letto, fatemi sapere se ho visto i draghi o pensate ci sia un fondo di verità!

5 commenti:

  1. A questo punto mi sono incuriosita e leggerò il libro per farmi un’idea su questa mancanza di riflessione di cui parli. Posso già dire però che non mi stupirebbe più di tanto. Appartenere a una minoranza discriminata non ci rende sempre automaticamente attenti ai problemi degli altri gruppi che condividono la barca con noi, senza contare che negli Stati Uniti le élite hanno spesso saputo giocare al divide et impera con i vari gruppi minoritari – *il* testo di riferimento IMHO rimane “A people’s history of the Unites States” di Howard Zinn, che spiega molto bene queste dinamiche. Aggiungerò “Americanah” alla mia già pericolante pila di arretrati...

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  2. Anche a me il libro è piaciuto molto. Non condivido molto le tue riflessioni sul "comune tiranno" perché Americanah non parla di razzismo in senso lato, ma della questione afroamericana (ed è proprio questo che rende le sue osservazioni così ficcanti e acute). Ed è vero che tutte le minoranze hanno qualcosa in comune, ma Chimananda parla dei neri in America, non dei gay, non dei musulmani, né dei nativi americani né dei disabili né di qualunque altra categoria non corrispondente ai canoni wasp.
    Quanto al fatto che non capisci come un afroamericano possa essere contrario alle nozze gay, mi sembra un ragionamento quasi razzista. Potrebbe essere un afroamericano ultracattolico convinto che essere gay sia contronatura, potrebbe ritenere che il matrimonio sia per definizione tra un uomo e una donna, potrebbe essere un afroamericano omosessuale a cui fa schifo il matrimonio, potrebbe essere semplicemente una testa di cazzo. Non credo che la razza debba essere un limite in tal senso, è come dire che le donne sono più sensibili perché hanno patito tanto nel corso della loro storia.

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    1. Mmm, in realtà io penso che in generale chiunque abbia subito una discriminazione, di qualsiasi genere essa sia (anche se ovviamente ogni discriminazione è diversa, i disabili non subiscono le stesse cose dei gay, per dire, e hanno problematiche completamente diverse) proprio perché sa cosa vuol dire essere la parte più debole di un sistema, sia più in condizioni degli altri di sviluppare una mente aperta. Non capisco cosa ci sia di razzista, questo ragionamento vale per tutti coloro che hanno subito discriminazione. Il perché questo non accada ha tante motivazioni. Il motivo A è quello che vediamo spesso: per evitare di essere confusi con il discriminato, proprio una volta che ci siamo emancipati dalla discriminazione nella quale bollivamo prima anche noi, ci accaniamo sullo sventurato di turno il doppio. Dobbiamo dimostrare di non essere più la parte debole della storia. Il motivo B ed è quello che imputo alla Adichie dopo aver letto con molta attenzione il suo libro (e sono sfumature che secondo me si colgono solo quando sei dalla parte debole della catena) è: ogni persona, per quanto discriminata, alla fine ha, a sua volta un oggetto ideale di discriminazione. Questo perché inizio a temere sia connaturato all'essere umano il bisogno di sentirsi superiore a qualcun'altro.
      Non so se rimembri la cena a cui partecipa Obinze a Londra. Quella in cui un tipo che lui considerava un mentecatto in Nigeria e che invece ha fatto carriera in Inghilterra, lo invita. E' presente anche un uomo gay e lui ricorda quando gridava Frocio frocio a un povero cristo durante la scuola (che tra l'altro non era neanche gay era solo il loro modo per vessarlo). Il turbamento di Obinze è quello di ritrovarsi in una situazione così surreale da vedere i suoi parametri capovolti: il mentecatto, il gay, la donna inglese dalla parte del "potere" e lui dall'altra. Io penso che quando sei vittima di discriminazione dovresti essere più portato per ovvie ragioni a vedere il ribaltamento in cui Obinze si trova in quel momento. La riflessione, inoltre, sul comune tiranno che cito, si capisce benissimo leggendo un favoloso libro di Tim Robbins "Cowgirl" in cui le cose che cerco di spiegare sono conclamate: la citazione è lunga e dice che il nemico dell'omosessuale non è l'eterosessuale, il nemico del nero non è il bianco, il nemico della donna non è l'uomo, il nostro unico nemico è la tirannia della mente ottusa. Ed esistono menti così ottuse che pur avendo vissuto una discriminazione non riescono a capire cosa abbiano in comune con le altre. Questa necessità di empatia comune che io auspicherei non serve tanto al mal comune mezzo gaudio, ma a fare fronte comune. Perché se le minoranze si unissero beh, forse alla fine non sarebbero così tanto minoranze. (E ripeto non capisco cosa ci sia di razzista nel mio ragionamento O.o).

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    2. La cena dall'amico di Obinze è una delle parti più belle del libro! In realtà ti do ragione su tutto, però non capisco secondo te cosa avrebbe dovuto fare l'autrice: inserire nel libro un personaggio gay?
      A me una cosa che è piaciuta in Americanah è la precisione con cui sono descritte certe dinamiche, evidentemente perché la nostra Chimamanda le conosce molto bene. Di sicuro non è altrettanto ferrata su altre questioni legate ad altre minoranze (gay o altro), perché avrebbe dovuto scriverne?

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    3. Non avrebbe dovuto scriverne, ma se tu incentri un libro sulla discriminazione razzista in America, ma non fai una riflessione sul fatto che la discriminazione razzista in America dipende dal fatto che le persone di colore sono una minoranza (e secondo me perché, da quanto si evince dal libro, non piace percepirsi come minoranza), allora secondo me al cuore del problema non ci andrai mai.

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