lunedì 30 gennaio 2017

Vivere così senza pietà, senza chiedersi perché e non dubitare mai. Vorrei essere capace, ma non lo sono. Una riflessione sulle paure del mondo, la difficoltà di conservare i propri principi e il terrore di sentirsi soli.

Mettiamola così. Vorrei essere una persona migliore. 

Vorrei essere con tutte le mie forze una di quelle che davanti agli sconvolgimenti di questi ultimi due anni continua a dirsi senza nessun dubbio: tutto andrà bene.

 Vorrei essere sinceramente una di quelle persone che sa, senza ombra di esitazione, alcuna che da una società multiculturale e aperta non verranno che miglioramenti e che, se saremo tutti molto bravi, tutto ciò ci porterà alla pace e alla prosperità.

 Vorrei essere una di quelle che non ha incertezze e si affida senza timori e con fedeltà cristallina ai principi di uguaglianza, rispetto e relativismo culturale con i quali è cresciuta.

 Ma non lo sono.
 Anche io ho paura, anche io temo chi potrebbe non capire (tanti anni a convincere la maggioranza degli italiani, occidentalissimi, che i gay non sono il male e ancora non ci siamo completamente riusciti, il timore di dover ricominciare da capo è forte), temo che la secolarizzazione per cui in Italia stiamo ancora lottando svanisca, anche io temo di perdere il lavoro, di impoverirmi, di tante e tante cose.

 L'unico sistema che conosco per combattere la paura è informarmi.

 Mi informo, bene, su siti autorevoli, su libri autorevoli, su saggi che tra l'altro spererei un po' più divulgativi (non semplicistici, divulgativi) perché un saggio su un problema pressate che capisce l'1% della popolazione serve fino a un certo punto.

 Parlo, mi confronto, leggo continuamente spaventosi commenti su fb che oltre a aizzare la voglia di una legiferazione sul web (che per me è parte della vita reale e non una cosa che non c'entra niente, come pensano molti) mi rendono ancora più sospettosa verso il prossimo che, onestamente, non pensavo capace di tanta diffusa cattiveria.


 Devo essere sincera però, è un palliativo. L'aspirina che prendi quando però hai 40 di febbre e la bronchite.

 La prima cosa che ha risollevato il mio morale dall'incresciosa questione e dai sensi di colpa che ne derivano (perché nel mio profondo so che non dovrei mai e mai dubitare), è stato un fumetto francese "Se Dio esiste" di Joann Sfar ed. Rizzoli Lizard, una raccolta sfusa di circostanze, pensieri, momenti di un fumettista francese, dopo l'attacco a Charlie Hebdo (e prima del Bataclan).

 Anche lui aveva i miei stessi timori, le mie identiche domande.

 Joann è per una società multiculturale, è per comprendere fino in fondo le ragioni del prossimo, ma si domanda, ad esempio davanti a un gruppo di donne in burqa (e felici di essere in burqa): com'è possibile che siate felici di essere dei fantasmi?

 E poi se ne vergogna, perché è un pensiero eurocentrico. Forse. O è un pensiero da essere umano cresciuto in una società secolarizzata?

 Joann (che di suo sta già attraversando un difficile momento personale per via della morte del padre), vaga per una Parigi sgomenta e in preda più che al panico allo choc.

 Dove hanno sbagliato (oltre, s'intende a colonizzare mezza Africa)? Perché vengono tanto odiati?

 Dovranno davvero rinunciare alla conquista immane della secolarizzazione (costata alcune guerre civili in età moderna con conseguenti morti) per allentare la tensione con chi di essere secolarizzato non ha alcuna intenzione? 
 Il diritto di satira ha ancora lo stesso margine d'azione e di libertà che aveva vent'anni fa? E la sua limitazione può essere sacrificata sull'altare della convivenza civile?

 In più, esattamente come me, Joann appartiene a una minoranza e sa benissimo che l'unico scudo che una minoranza ha contro i deliri della maggioranza è un paese coi nervi e una democrazia salda, il più possibile lontana da ingerenze religiose e di specifici gruppi di potere.

 Porsi sulla difensiva perché si teme di diventare l'obiettivo di persone nuove che forse non condividono determinate conquiste è poi così sbagliato? Non è forse umano? Ragionevole?

Joann si/ci pone tante domande e non dà nessuna risposta.

 Forse provare un po' di paura, davanti a tutte queste cose, è legittimo. E penso che anche ammetterlo lo sia.

Ciò che NON è legittimo è lasciare che qualcuno usi la nostra paura per farne un'arma di potere, un martello con cui schiacciare chi riteniamo, al momento, la causa di tutti i nostri mali, dimentichi che non c'è mai una sola causa e che chi viene additato come colpevole è solo l'anello più sacrificabile della catena.

 Essere impauriti e cercare di superare la propria paura con armi razionali ha un senso, lasciarsi prendere dall'irrazionalità (mettendoci nelle mani di chi cerca di assecondarci per puro interesse personale) no.

 Del resto, mi sforzo di riflettere, se la mia vita è cambiata è stato anche perché molta gente ha smesso di avere paura e si è aperta, si è informata, ha tentato di capire.

 Ho un debito di comprensione verso gli altri.

 E se ci sono altri, come me, che lottano nel tentativo disperato di capire e di resistere alle lusinghe populiste, suggerisco la lettura di un libro di Sergio Arpaia "Qualcosa là fuori" ed. Guanda e, in contemporanea, la visione di un film "I figli degli uomini" (che curiosamente forse sarebbe stato meglio chiamare, "I figli delle donne").

 E' un accostamento che mi è stato suggerito dal destino: lo stesso giorno in cui ho terminato il libro, mi sono imbattuta nel film su Netflix.

 Nel libro di Arpaia si parla di una catastrofe climatica.

 Siamo tra qualche anno, la temperatura terrestre si è alzata di quei due o tre gradi in più (non è che sia irrilevante, sono io che non lo ricordo) che hanno fatto sciogliere i ghiacci, desertificare grandissima parte dell'Europa e causato migrazioni di massa verso il nord del mondo.

 L'Italia, ormai con un clima da Sudan, è in preda ad una sorta di anarchia politica.
  Napoli nello specifico è una sorta di suq in cui si mescolano estremisti cattolici e popolazione in gran parte islamica per effetto di una precedente ondata migratoria da parte delle popolazioni nord-africane in fuga dalla siccità.

 Livio Delmastro il protagonista, è un ex professore di neuroscienze si calcola sulla sessantina, vedovo e solo.
 In viaggio con un gruppo di profughi che dall'Italia cerca disperatamente di raggiungere la Scandinavia, un luogo ancora ricco e fiorente, diventerà suo malgrado l'ultima roccia per alcuni di loro.

 Perché questo viaggio non è semplice. Molte sono le insidie che si nascondono attraverso l'Europa centrale: gli svizzeri che richiedono un pedaggio di denari, viveri e acqua e vivono arroccati armatissimi tra le montagne. Guerriglie tedesche che rapinano e uccidono i migranti stremati.

 Stanchezza, disidratazione, disperazione, pochissimi resistono fino al momento in cui si giunge sulle agognate coste, ma entrare in Scandinavia e rimanerci una volta entrati è quasi impossibile a causa delle stringenti leggi sull'immigrazione.

 Le idee belle di Arpaia sono due:

1) Far vedere anche il prima.

 Non succede tutto in pochissimi anni, ci sono almeno tre decenni di indifferenza, "Andrà tutto bene", "Mi spiace per gli altri, ma finché non tocca a me sto benissimo".
 Anni di errori politici, anni in cui ci si rende conto che aver negato il cambiamento climatico per poi ricredersi  di colpo non serve a nulla, perché al pianeta surriscaldato dei tuoi sbagli non frega proprio niente.

2) Costruire un'ambientazione credibile perché gli italiani diventino identici ai migranti odierni e vivano le loro stesse cose. 

 In balia della siccità e del caos, di trafficanti d'uomini e nazioni ostili, ci sono gruppi che spendono tutti i propri soldi, che vanno avanti fino allo stremo delle forze, terrorizzati, impauriti, soli.
 E nel libro quelle persone siamo noi.

  Se è difficile in certe condizioni di paura, di confusione e disinformazione empatizzare con gli altri, è istantaneo e facilissimo empatizzare con noi stessi.

 "I figli degli uomini" (che è tratto da un romanzo omonimo di P. D. James che purtroppo non ho ancora letto) parte invece da un curioso espediente fantascientifico: in un futuro non molto lontano, gli esseri umani non riescono più a riprodursi.


Qualsiasi gravidanza in corso finisce in un aborto e nessuna cura, niente, riesce a causarne altre.

 Il mondo cade in preda a uno strano nichilismo. 

 I giovani, consci di essere gli ultimi della loro specie, si isolano in una sorta di autismo, i più vecchi continuano ad andare avanti nonostante l'anarchia imperante.

 In Inghilterra giungono grosse ondate di migranti e profughi (non è dato sapere perché, viene solo accennato che l'Italia è in un qualche stato di devastazione, ma en passant, per giustificare la presenza a Londra di alcune importanti opere d'arte), ma la Gran Bretagna ha varato delle leggi severissime in tema di migrazione.

 Nessun cittadino inglese può aiutare i migranti i quali vengono stipati in posti molto simili alla Giungla di Calais.

 Alcuni gruppi terroristici pro-migranti scovano, ad un certo punto, una donna, migrante anch'essa, incinta.

Ho letto da internet che mentre nel film
a essere infertili sembrano diventate le donne,
nel libro, invece, lo sono gli uomini.
 Con la scusa di metterla in salvo conducendola fino ad un misterioso gruppo di attivisti che si spostano solo su navi (che per molti è una sorta di favola e non esisterebbe sul serio), la imbarcano in un viaggio verso un porto nel nord in cui questi militanti dovrebbero attraccare.

In realtà, una sorta di gruppo scissionista cospira per usarla come arma di propaganda verso il governo: la prima donna incinta e il primo bambino nato dopo vent'anni sono migranti in fuga.

  L'uomo che l'aiuterà è interpretato da Clive Owen ed è un tizio che un tempo credeva a molte cose, militava, lottava, poi dopo la perdita del figlio ha deciso che tutto è ormai inutile.
 Il destino del mondo non è più affar suo.

 Ci sono tante cose anche in questo film.
  Tante domande, tanti momenti in cui ci troviamo a metterci nei panni delle parti in gioco, trovandoli tutti stranamente convincenti.

 Ma allora come si fa a capire qual è la parte giusta? Di cosa bisogna davvero aver paura e quanto?

 Forse bisogna accettare l'esistenza di questioni enormemente complesse in cui districarsi è difficile, soprattutto quando molti hanno gioco a mistificare la realtà.
 Ma se così fosse, e così è, dovremmo imparare a dubitare di chi ci regala soluzioni semplici perché non ne esistono.
 E quello che sembra così facile un giorno, rischia di avere conseguenze disastrose e ben più complicate non molto tempo dopo. E non esiste errore che non si paghi.

 Per completare il post, ecco una bellissima poesia di Brecht, "A chi esita". Forse la risposta che non ci ha saputo dare Joann Sfar ce la dà qui, Brecht.


7 commenti:

  1. Io, forse in modo eccessivamente semplicistico, nella mia testa divido il "problema" in due grosse fette: i migranti e gli integralisti.
    Sintetizzando al massimo penso che dei migranti non c'è da avere nessuna paura, nemmeno se arrivano a migliaia nel nostro paese, anzi sarebbe da rivedere tutto il sistema di accoglienza per farli diventare al più presto nuovi cittadini; degli integralisti ho paura ogni giorno, ma non vado a sprecare energie per temere quelli ancora lontani, visto che ne impiego già tantissime per cercare di difendermi da quelli che ho sotto casa (generalmente non musulmani).
    Lo so che pare tirata per i capelli, ma per un'atea come me qualsiasi ingerenza nella vita pubblica e privata è integralismo, già evitare che il prete mi citi nell'omelia perché non lo faccio entrare a benedire casa o chiedere che dai carabinieri o in ospedale non ci sia il crocefisso è un lavoraccio.
    Quello che mi scoccia è che questa mia visione netta e semplice non va bene per gli altri. Mi scoccia vedere che il parallelo migrante=integralista è sempre in agguato, che l'arrivo di migliaia di disperati non ci fa temere un'epidemia di qualche malattia esantematica ma un'epidemia di moscheee, che c'è un salto logico tra "in fuga da qualcosa" e "religioso retrogrado". E non riesco a capire se sbaglio tutto io, semplificando troppo o se sbaglia chi fa il salto logico, ecco perché la cosa mi scoccia. Non mi piace non capire.

    Comunque se, per assurdo, fossi io in cima a qualche vertice con potere decisionale, e mi puntassero una pistola alla testa chiedendomi di decidere tra totale chiusura e totale apertura, sceglierei sempre la seconda.
    Perché se vuoi, o almeno speri, che chi arriva nel tuo paese adotti le tue regole (partendo dall'ovvio presupposto che non puoi impedire alla gente di arrivare, a meno che non fai i muri ma la storia insegna che anche quelli prima o poi cadono), il primo e più grande errore che puoi fare è trattarlo da estraneo. Accoglilo come un amico, e sarà più probabile che si sforzi e si impegni per rispettare te e la tua terra.
    Ma forse anche questa è una visione troppo semplice.

    [Ho visto il film, un po' troppo "agitato" per piacermi, e con Clive Owen che poveretto lo detesto xD Grazie di avermi detto che viene da un libro, subito in wishlist!]

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    1. Non è che io abbia i miei dubbi perché penso di essere migliore degli altri eh. Però penso che cose come la netta divisione tra stato e religione siano fondamentali. Prendiamo il case del bourkini di questa estate. E' stato affrontato in modo delirante da tutti. Il punto lì è molto chiaro: mettiamo che lo stato dice "per ragioni di sicurezza non si devono indossare capi che coprano il volto" (peraltro in Italia esiste già questa legge dagli anni '70). Non si possono accettare eccezioni di tipo religioso, perché se fai eccezione per uno fai eccezioni per tutte le confessioni. In questo caso non c'entra niente "Ognuno si veste come gli pare" (come molti protestavano questa estate in difesa del bourkini andando al mare bardati da motociclisti) perché non stiamo parlando di semplice vestiario, ma di un rapporto di forza tra sistemi di potere.
      La religione è un sistema di potere, rivendicare l'uso di vestiario vietato per legge in nome della religione, vuol dire dare preminenza al sistema di potere religioso invece che statale. Poi possiamo discutere su quanto sia giusta o meno una legge di questo tipo (lavorando a contatto col pubblico per dire, secondo me è giustissimo che una persona sia sempre riconoscibile in volto). Questo punto, che pare una questione di lana caprina, non lo è, è già foriero di enormi incomprensioni.
      Quello che mi chiedo è: si riescono a integrare modi così diversi di vedere il rapporto stato e religione? Magari sì eh, sicuramente troveremo un modo, ma magari no.
      Ed è giusto chiedere a nazioni come la Francia che hanno relegato la religione ad una sfera completamente privata (cosa che condivido) di cambiare? Magari sì, ma magari no.
      Sono questioni enormi e penso che uno dei grandi problemi della sinistra adesso è pensare che ok, ci sono quelli di destra che la pensano in modo, ma le persone che si sono sempre professate di sinistra sanno che tutto si risolverà bene, che l'integrazione è l'unica via e che saremo tutti amici e fratelli.
      Ecco, sì in fondo in fondo lo sanno, ma non è detto che le loro paure e i loro dubbi non li abbiano e lasciarli soli senza dar mostra di comprendere quanto sia complicato, certe volte, aprirsi e capire, è un errore che rischiamo di pagare caro tutti quanti.
      Il discorso è contorto, ma spero di essermi spiegata.

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    2. Spiegatissima.
      Una piccola precisazione però credo sia obbligatoria: il burquini non copre la faccia. Quindi non viola alcuna legge. Farlo togliere è proibire qualcosa solo perché legato a una religione, ovviamente una che non è la "nostra" (perché le suore tutte coperte, in spiaggia, non danno fastidio a nessuno). Il rapporto di forza che citi si sposta dall'altro lato.
      Quando invece una donna con velo in testa ha preteso di entrare in un Municipio - non mi ricordo che città fosse - per seguire un'assemblea, e alla richiesta di andare in una stanzina appartata a far vedere la faccia a una poliziotta ha contrapposto un fermo rifiuto in nome della sua religione, ecco che s'è beccata una multa salatissima.
      Lì la religione ha dovuto sottostare alle regole della comunità, nello specifico a leggi antiterroristiche risalenti agli anni '60. Ma nel caso del burquini la comunità è "minacciata" solo dalla paura del diverso, perché le donne sono riconoscibilissime e di sicuro non sono un pericolo per sé o per gli altri.

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    3. A me del burquini in sè non importa molto, come dici tu è una cosa che non lede nessuno, il volto è riconoscibile ecc ecc. Per me diventa un problema nel momento in cui entra in contrasto con lo stato. Lo stato fa una legge che lo vieta (questa estate erano ordinanze comunali non vere e proprie leggi, poi convengo che il principio allora dovrebbe valere anche per le suore se quello è il problema), tu puoi trovarlo ingiusto, puoi protestare, puoi armare un casino perché la cosa cambi MA la legge la rispetti. Come del resto tutti rispettiamo leggi che non ci piacciono particolarmente. Poi non so dalle tue parti, ma a Milano di donne completamente velate se ne vedono (una volta in periferia ho visto persino una col burqa).

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  2. "Ciò che NON è legittimo è lasciare che qualcuno usi la nostra paura per farne un'arma di potere, un martello con cui schiacciare chi riteniamo, al momento, la causa di tutti i nostri mali, dimentichi che non c'è mai una sola causa e che chi viene additato come colpevole è solo l'anello più sacrificabile della catena.
    Essere impauriti e cercare di superare la propria paura con armi razionali ha un senso, lasciarsi prendere dall'irrazionalità (mettendoci nelle mani di chi cerca di assecondarci per puro interesse personale) no.
    (cut)
    Forse bisogna accettare l'esistenza di questioni enormemente complesse in cui districarsi è difficile, soprattutto quando molti hanno gioco a mistificare la realtà.
    Ma se così fosse, e così è, dovremmo imparare a dubitare di chi ci regala soluzioni semplici perché non ne esistono.
    E quello che sembra così facile un giorno, rischia di avere conseguenze disastrose e ben più complicate non molto tempo dopo. E non esiste errore che non si paghi."


    Come spesso succede, l'hai detto meglio di quanto potrei mai farlo io.
    Credo che in questa situazione sia legittimo essere confusi. Ma l'unica cosa cui possiamo - e dobbiamo! - aggrapparci è il nostro senso critico e razionale, da opporre alla follia dilagante.
    (Ma qui ci sarebbe da aprire un discorso su quanto ci siamo impegnati, come società, negli ultimi 30 anni, a sfornare generazioni che il senso critico non sanno neanche se sia roba che si mangia... E del resto le nuove generazioni vittime dell'analfabetismo di ritorno vanno a saldarsi perfettamente con quelle che l'analfabetismo lo han già visto all'andata, indi per cui il bel panorama di barbarie che emerge, come accennavi, leggendo certi commenti su Facebook...)

    Grazie per la poesia. Non la conoscevo, ma ora ho voglia di stamparmela e appendermela in camera :)

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  3. il libro di James è molto meglio del film

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  4. ps. anni fa usci' un interessante saggio intitolato Fear dove si esaminavano appunto le paure della nostra epoca: leggibilissimo e illuminante. credo sia stato tradotto in italiano, ma non ricordo l'autore e per recuperarlo dovrei fare scavi approfonditi fra i libri cartacei in quadruplice fila.

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