venerdì 7 marzo 2025

Essere o non essere (sui social)? Questo è il problema. Se sia più nobile andarsene o levarci a combattere contro orde di troll organizzati? Una riflessione amletica

 In questi tempi oscuri che durano oscuramente ormai da un decennio e che spero prima o poi compiano (come avviene per tutte le cose umane) una parabola discendente verso il raziocinio, ho passato, come molt3 di no, ormai un tempo considerevole su internet, ma soprattutto sui social.

 Proprio perché ormai i tempi sono oscuri da anni e bene o male quasi tutt3 abbiamo passato questo considerevole tempo sui social, mi stupisce sempre come esista così poca letteratura e come non sia perennemente al centro del dibattito urbi et orbi il modo in cui la propaganda detti il discorso tramite alcune tecniche ormai chiarissime.
 
 La bestia di Salvini, per citarne una, è fatto ormai noto e in verità non è che serva particolare genio per capire come eserciti di troll ben governati riescano a creare, alimentare e gestire il discorso sotto letteralmente qualsiasi post di politica venga pubblicato.

La propaganda è questa cosa che a sinistra abbiamo deciso che fa un po’ schifo,
malgrado se ne sia fatto ampio uso in passato e malgrado non se ne possa fare a meno.
 
 Voi pensate che a sinistra non la usino perché non sono capaci, ma in realtà è vero solo in parte. 
 La verità è che c’è una certa diffidenza verso la propaganda, un sentimento avverso che si alimenta anche dall’uso che la destra ne fa.
 
 Ossia, uno dei modi, pensano molti a sinistra, per differenziarsi da quello che ormai è diventata la destra, è rifiutarsi di usare le loro armi. La propaganda insomma è una cosa vista con un’accezione puramente negativa. 
 Solo che mentre ci si scervella su questi dilemmi morali, abbiamo a che fare con gente clamorosamente amorale che sta devastando la politica planetaria.
 
Per dirla con una massima del passato che abbiamo nascosto sotto il tappeto, andrebbe ricordato che “La rivoluzione non è un pranzo di gala”.
 
 Non lo è per la destra, e purtroppo manco per la sinistra.
 
 Ma sparare sul pianista, in questo caso i partiti politici di sinistra, è un esercizio troppo facile che ci dovremmo stancare di praticare. Questo perché è sempre molto semplice dare la colpa agli altri e non guardare mai le proprie.
 
 Quello che vorrei mettere al centro del discorso è un altro dubbio amletico che mi attanaglia da anni: ha senso o non ha senso stare sui social? 

 Ma soprattutto, ha senso o non ha senso cercare di partecipare e rispondere ai discorsi, ai commenti, alle illazioni, ai post pieni di bufale, alle fake news messe in giro da questa macchina di propaganda oliatissima di estrema destra?

  Non cito a caso la locuzione “dubbio amletico” perché qualche sera fa, mentre combattevo con la cena, mi sono ritrovata per l’ennesima volta a farmi il sangue amaro per un tizio che aveva attaccato briga sotto un mio commento su ig e per l’ennesima volta mi sono domandata: ma a me chi me lo fa fare che sono già oberata da un’ingente quantità di problemi e non ho certo bisogno di ansiarmi con un troll che penso, immagino, venga pure pagato da qualcuno (o programmato da qualcuno che viene pagato)?
 
 Da lì la mia mente, evidentemente capace di salti logici a me lucidamente insospettabili, si è improvvisamente agganciata al celebre monologo Shakespeariano: “Essere o non essere?”
 
 Per curiosità sono andata a rileggermelo ed effettivamente questa riflessione calza perfettamente al dubbio che percorre molt3 dopo il coming out trumpiano collettivo della broligarchia tecnologica mondiale: ma davvero ha ancora senso stare sui social (o anche qua su blogger) a dare i nostri dati a delle tecnocrazie per controllarci o per addestrare macchine che ci sostituiranno/controlleranno (a voi non sale il crimine quando vedete la gente baloccarsi su Linkedin con le AI invece di preoccuparsi? A me sì)?
 
 Per rinfrescare la memoria, riposto a vostro uso e consumo il testo integrale del monologo:

“Essere o non essere: questo è il problema.
 Se sia più nobile tollerare le percosse di una sorte oltraggiosa,
 o levarci a combattere tutte le nostre pene e risolutamente finirle?
 Morire, dormire… null’altro.
 E con il sonno dar termine agli affanni dell’animo e alle altre infinite miserie che sono l’eredità della carne.
 Ecco una fine da bramarsi devotamente!
 Morire, dormire… Dormire. Sognare forse.
 Ma qui è l’intoppo: perché in questo sonno di morte, una volta liberati di questa spoglia mortale, quali incubi ci perseguiteranno?
 Ecco cosa ci ferma!
 È proprio questa idea che ci fa reggere tanto a lungo la sventura di vivere:
 chi sopporterebbe altrimenti il flagello e le offese del tempo, l’ingiuria degli oppressori, la villania dei superbi, gli spasimi dell’amore disprezzato, le lungaggini della giustizia, l’arroganza dei potenti e gli sfregi che subisce dagli indegni l’umiltà dei meritevoli, se è possibile liberarsene da sé con un solo colpo di lama?
 Chi mai vorrebbe portare sudando e gemendo il fardello di una logorante esistenza, se la paura di qualcosa oltre la morte
 – l’inesplorato mondo da cui nessun viandante fece mai ritorno –
 non trattenesse la nostra volontà, facendoci preferire i mali presenti ad altri che non conosciamo?
 E’ così che la coscienza ci rende codardi;
 così l’incarnato della risolutezza si fa pallido roso dalla riflessione.
 Anche le più alte e generose imprese vanno a finire nel nulla e perdono il nome stesso di azioni.”
 Diciamoci la verità, stranamente o forse non tanto, questo monologo racchiude molti dei dilemmi sulla questione.
 
 Ho discusso con tante persone in questo periodo su quale fosse più sensato comportarsi in un’epoca in cui le squadracce sono online e le intimidazioni sono segnalazioni di massa, ricondivisioni di screen e pubbliche gogne (attuate anche da politici).
 
Fondamentalmente, come si chiede Amleto:
 
"Se sia più nobile tollerare le percosse di una sorte oltraggiosa,
 o levarci a combattere tutte le nostre pene e risolutamente finirle?"
 
 Le risposte sono state varie, alcuni vogliono riuscire ad abbandonare i social (ma per lavoro è ormai difficile), altri si limitano a farne un uso privatissimo, altri ancora vorrebbero anche arginare questo dilagare propagandistico nero, ma poi gettano la spugna perché un singolo contro un insieme organizzato cosa mai può fare?
 
 Per quanto condivida e trovi sensate tutte le risposte, a me però il dubbio rimaneva ed è esattamente quello espresso da Amleto:
 
Morire, dormire… Dormire. Sognare forse.
 Ma qui è l’intoppo: perché in questo sonno di morte, una volta liberati di questa spoglia mortale, quali incubi ci perseguiteranno?”
 
 È abbastanza affannoso per un singolo opporsi al dilagare, ma quali incubi ci perseguiteranno per anni se abbandoniamo le nostre spoglie virtuali e ci arrendiamo?
 
 S’intende. La lotta online non è la sola lotta, anzi, per me la lotta online manco dovrebbe esistere, ma non prendiamoci in giro, nuovi mezzi di comunicazione hanno sempre fatto da volano a chi per primo li ha saputi sfruttare e non possono essere ignorati come se vivessimo ancora nel 1960.
 
 La riforma protestante non sarebbe avvenuta in quei termini senza l’invenzione della stampa a caratteri mobili e anche quella non è stata un pranzo di gala in termini di conseguenze.
 
 Vedo su questo punto una certa mancanza di riflessione collettiva. Cosa fare delle nostre esistenze online: essere o non essere?
 
 È sensato permanere e opporci con tutte le nostre forze? Ed è sensato, a questo punto, non pensare che sia necessario organizzarsi in un qualche modo per opporci a una macchina molto ben organizzata?
 
 Perché continuiamo a trattare quello che di fatto è un monopolio del discorso online che ha concrete ricadute sulle nostre vite come qualcosa di cui possiamo disinteressarci? 
 
 Vorrei che fossimo onesti su questo punto. Una parte di noi (al netto di quelli che se ne fregano proprio, ma sono un altro problema) lo fa perché probabilmente perché pensa sia troppo stressante e che la vita ci dia già troppi problemi (lo penso anche io il 90% del tempo) e un’altra parte perché lo ritiene, fondamentalmente, una parte non rilevante in modo sostanziale di tutto il tracollo generalizzato a cui stiamo assistendo.
 
 Questo atteggiamento rispecchia secondo me una sorta di errore di prospettiva storico.

Sempre per citare Mao, citato in realtà da Stephen King in quel manuale politico dei giorni nostri che è “La zona morta”
“Quando soffia il vento del cambiamento, alcuni costruiscono muri, altri mulini a vento”.
 
 Ecco noi ci troviamo in questa situazione. C’è una parte che sta usando i social come mulini a vento e una parte che si illude di fermare il tutto o costruendo qualche muretto o nascondendosi direttamente dietro.
 
 Del resto, sempre Amleto ce lo dice perché lo facciamo:
 
 “Chi sopporterebbe altrimenti il flagello e le offese del tempo, l’ingiuria degli oppressori, la villania dei superbi, gli spasimi dell’amore disprezzato, le lungaggini della giustizia, l’arroganza dei potenti e gli sfregi che subisce dagli indegni l’umiltà dei meritevoli, se è possibile liberarsene da sé con un solo colpo di lama”.
 
 Fondamentalmente se spegniamo i cellulari e troviamo il coraggio di disintossicarci dai social non vedremmo più tutto questo. Se eliminassimo la nostra presenza online o ci confinassimo in qualche recinto ben custodito potremmo sicuramente sfuggire a ingiurie e villanie con un colpo di lama neanche troppo doloroso.
 
 O no?
 
O siamo al punto in cui se abbandoniamo la battaglia online presto ci troveremo ad affrontarne una molto più perigliosa e pericolosa dal vivo?
 
“Chi mai vorrebbe portare sudando e gemendo il fardello di una logorante esistenza, se la paura di qualcosa oltre la morte
 – l’inesplorato mondo da cui nessun viandante fece mai ritorno –
 non trattenesse la nostra volontà, facendoci preferire i mali presenti ad altri che non conosciamo?”
 
 Io per mia natura sono pessimista e ho sempre il retropensiero che i mali che non conosciamo siano assai peggiori di quelli di cui siamo a conoscenza. Finora la mia esistenza da millennial non mi ha smentito.
 
 E quindi cosa fare? Qual è la risposta tra l’essere o non essere online?
 
La risposta a mio parere è cosa facciamo di quell’esistenza in questo momento e se basti il modo in cui stiamo al mondo nel mondo virtuale. Per me no. Non basta più.
 
 Perché mentre noi ci scambiamo video su gatti e papere, su comici e Asmr, qualcuno lavora per inquinare e far sua ogni singola parte. Per distruggere quel mondo. E ci sta riuscendo.
 
 E io non penso che la soluzione sia attendere, guardare e sottovalutare. Penso che la soluzione sia prendere questa situazione sul serio e capire come affrontarla, non singolarmente, ma in modo organizzato.
 
 Chi deve organizzare? Eh, giovani, il problema sta tutto qui. I partiti un tempo l’ufficio di propaganda ce lo avevano e lo usavano senza farsi troppi problemi, ma adesso viviamo in un’epoca in cui qualcuno può permettersi tutto e manipola il discorso dando l’impressione che gli avversari non possano permettersi niente.
 
 Quindi chi deve fare qualcosa? Che si inizi a pensarci.
 
“È la coscienza che ci rende codardi”.
 
 O forse è la coscienza che pone scrupoli, umani, in tempi disumani. E forse non possiamo più permetterceli.

mercoledì 26 febbraio 2025

Ma non sarà che le forme della partecipazione sono un po' limitate? Un post che non è un alibi per nessuno, ma un tentativo di trovare una soluzione

Come scrivo qua e là, per ragioni burocratiche, sono stata costretta a iscrivermi alla scuola di specializzazione (no, non da insegnante).

 Siccome in Italia è difficilissimo cambiare comparto perché se prendi una decisione a diciannove anni poi devi pagarla per tutta la vita, ho appena sacrificato nuovamente un mese della mia vita (e molti altri soldi di tasse universitarie) china sui libri.

 Questo cappello di lamento (che era più lungo, ma siccome ci ho messo due settimane a pubblicare questo post nel frattempo ho tagliato 20 righe) è per introdurvi al fatto che comunque, malgrado il mio grado 0 di motivazione in questa ennesima avventura universitaria, poiché all’epoca la materia l’avevo effettivamente scelta per un motivo (quello palesemente sbagliato ossia non per i soldi, ma perché mi piaceva), ne ho cavato comunque qualcosa di utile e interessante.

 Qualcosa che non possa essere applicato solo ad archivi e biblioteche, ma anche alla vita reale, la nostra, tristissima, drammatica, allucinante, distopica che stiamo vivendo in questo momento.

 Nell’esame di Biblioteconomia e ricerca applicata alle biblioteche, per quanto strano possa sembrare, ho trovato una risposta possibile a un tema che mi tormenta (pensate voi come mi tormento io): la mancata partecipazione delle persone alla vita democratica.

 Allora, io lo so che per anni ci siamo detti che la gente è delusa, che la politica non dà risposte, che sono tutti uguali e via discorrendo, ma ormai da un paio di anni chi ci governa gode di un illogico sostegno che può essere solo ideologico. Illogico perché l’inflazione è alle stelle, le tasse pure, gli affitti anche, si boccheggia nella vita quotidiana senza via d’uscita.

 Quindi, considerando che siamo stati una nazione che negli ultimi trent’anni si agitava pure per gli starnuti facendo ondeggiare i sondaggi come canne al vento, permettetemi di pensare che qualcosa non vada.

 Il sostegno ideologico è quello che è: difficilmente amovibile finché almeno parte delle persone non vede un altro carro del vincitore dove salire, Berlusca, Renzi, grillini, Meloni e domani chissà.

Il punto è la famosa gente che non va a votare.

Manifesto del 1948. Non è
per litigare, l'ho messo perché
noto che l'astensionismo un 
tempo era civicamente vissuto
in modo diverso
Non andare a votare per me è colpevolissimo, lo ritengo colpevole pure per chi lo fa con metodo, cioè non perché non si riconosce in nulla, ma in chi non crede allo strumento del voto e fa politica in altro modo. 

 Questo perché mentre fai politica in un altro modo qualcuno però fa le leggi e poi puoi pure fare tutte le manifestazioni del mondo sul ddl sicurezza, se chi è al governo ha i numeri (e li ha anche perché non sei andato a votare) il ddl viene approvato. Fallo abrogare poi.

 Io ogni tanto me chiedo se qualcuno prima o poi c’avrà tipo un’idea matta e penserà: ma perché invece di fare manifestazioni dove ce contiamo tra de noi, non andiamo in parlamento e facciamo le leggi che ce pare? Così, è un’idea che mi pare a destra abbiano assimilato, ma a sinistra per qualche motivo faccia ancora ribrezzo.

 In questo specifico post non voglio nemmeno parlare di chi non va a votare perché si sente come un cliente al ristorante: il menù non è di suo gradimento e non ordina. Peccato che in cucina ci dovrebbe stare pure lui perché non è un ristorante, ma una sala comune dove tutt3 hanno responsabilità e stare seduti oltre che irrispettoso verso gli altri è pure nocivo. Io ad esempio mai capito perché chi si sbatte a fare politica debba pure sorbirsi chi non la fa e si lagna.

 Per quelli che “la politica la fa chi ha tempo”, fatemi sapere quanto tempo avevano Di Vittorio, gli agricoltori pugliesi, gli operai e tutta la gente che oltre a lavorare si è fatta il mazzo per far approvare diritti su cui sputate perché è arrivato il padroncino di turno che vi rincretinisce di idiozie.

 Questa fazione politica che sta prendendo piede nel mondo ha molto gioco a che le persone si percepiscano come consumatori e non come cittadini. 

 Li blandisce, li coccola, sa che una parte di loro si farebbero comunque scrupoli a votarli e allora li tiene a casa, fa guidare il discorso social da un po’ di troll che dicono che non dovremmo andare a votare “perché se non andasse a votare nessuno allora sì che ci sentirebbero!” (chi ti deve sentire? Mica vivi nella Francia del re Sole).

  Insomma si indirizza il discorso verso l’alibi del “non è colpa mia, è colpa di chi ci è adesso” e grandissimo must “se vince la destra è colpa della sinistra”.

Voi avete mai sentito dire che se vince la sinistra è colpa della destra? Io no.

 Ma conviene blandire, coccolare, inebetire. Se non ti va di fare nulla perché hai altro da fare va benissimo, se ti disinteressi va benissimo, e se ti senti sempre più impotente va benissimo, così non ti può sfiorare manco per sbaglio l’idea che se fossi più attivo potresti in effetti cambiare qualcosa.

 Ma voi direte, se siete arrivati fin qui, ma che caspita c’entra questa invettiva contro l’ignavia con l’esame di biblioteconomia?

 C’entra perché, invettiva a parte, mi ha fornito una risposta sul perché la gente partecipa meno e su come, almeno chi ha una vaga motivazione ma non sa come metterla in pratica, potrebbe farlo.


 In questo convegno ideato a partire dalle cinque leggi della biblioteconomia organizzato a Milano da Chiara Faggiolani di cui vi consiglio caldamente l’ascolto (sono 7 ore, ma le valgono tutte, ma esiste anche il libro con gli atti del convegno "Libro città aperta. Le biblioteche e lo sviluppo umano. Cinque tesi" a cura di Chiara Faggiolani) ci sono stati alcuni interventi che mi hanno particolarmente colpito su spazio e tempo e su come l’attuale sistema economico stia divorando entrambi consegnandoci alla solitudine e a una sensazione di inebetente impotenza.

 Le città sono aggredite dal mercato, luna park per turisti paganti serviti da lavoratori sottopagati. 

 Le persone residenti non abbienti vengono espulse come se fossero scarti e tutto ciò che può essere massimizzato per il profitto lo è, smembrando di fatto interi tessuti sociali e portando anche seri problemi allo Stato che dovrebbe prima preoccuparsi del benessere dei cittadini e poi di quello degli imprenditori (sì, se affitti casa tua per farne un albergo sei un imprenditore non “uno che arrotonda”, chiamiamo le cose col loro nome, così magari le tassiamo anche come dovremmo).

 In questa simpatica gentrificazione, le persone, abbienti o meno, sprofondano nella solitudine.

 Non hanno più luoghi dove incontrarsi senza pagare o senza avere l’ansia del tempo che scorre.

 Io mai posso dimenticare uno degli episodi che mi ha fatto definitivamente capire che Milano non era più un posto dove stare: io che pago 20 euro un aperitivo e dopo 20 minuti 20 inizio ad essere assillata dai camerieri per consumare ancora altrimenti me ne devo andare. È stato un caso limite, ma è stato un caso in cui ho capito bene che la deriva attuale è: esisti se paghi, se non paghi devi togliere ogni disturbo.

 In questo marasma, l’intervento che mi ha dato una possibilità di risposta su come opporci a questa deriva che mette al centro l’umano solo in qualità di bancomat, è stato quello del professor Ezio Manzini.

 Nel suo intervento parla di partecipazione. Ma dice anche una cosa che appare ovvia e di cui pure si parla poco e ci si prende ancor meno cura: le forme della partecipazione.

 È innegabile che la sensazione generale, quando si va per la prima volta a qualche riunione associativa, di partito, di squadra, di circolo, di qualsiasi forma aggregativa, sia che esistono solo due modi per partecipare: farlo gettandosi anima e corpo o togliere il disturbo.

 La sensazione molto spesso (ok, non sempre, ma diciamo spesso) durante i primi incontri è sempre quella del momento di iniziazione: devi convincere le persone che sono già lì da tempo della tua buona fede, ma soprattutto del tuo desiderio di collaborare il più attivamente possibile. 

 In caso contrario, ammesso e non concesso che qualcuno ti rivolga la parola, la buona volontà è messa in dubbio, chi sta lì da tanto sottolinea come “se tutti facessero così non si farebbe nulla” e in generale, la già poca sensazione di familiarità (ovvia in tutti i contesti nuovi) si amplifica facendo sentire i nuovi venuti ospiti indesiderati.

 Considerando che raramente si parte per partecipare armati da un invincibile fuoco pronto a superare ogni ostacolo, è fatale che molti e molte si arrendano dopo la prima volta o dopo la prima mail per chiedere timide informazioni.

 In parte è vero che se tutti partecipassimo a tempo perso non si farebbe nulla, ma è anche vero che non tutti abbiamo le stesse possibilità: c’è chi magari vive fuori città o lontano, c’è chi fa due lavori, chi lavora su turni, chi è genitore single e ha poca elasticità, c’è chi ha genitori anziani e via discorrendo. 

 Insomma, c’è tutta la vita che peraltro fluttua nelle proprie opportunità di anno in anno (esempio su di me: quest’anno con la scuola di specializzazione le lezioni si stanno divorando quasi tutto il mio tempo libero, lo scorso anno non era così).

 Se è vero che partecipare è impegno e impegno implica anche rinunce o comunque una selezione (per partecipare attivamente devi rinunciare a riposo o a fare altro) è anche vero che vi è una certa rigidità nelle forme di partecipazione e che forse, se fossimo più flessibili, sfruttando anche in parte le possibilità ibride date dai nuovi mezzi di comunicazione (che per ora vengono usati con più cognizione di causa da chi le utilizza in modo nefasto), si potrebbero intercettare molte più persone.

 Ciò che dice Manzini nel suo intervento è che si dovrebbero prevedere più forme di partecipazione e coinvolgimento.

 Se le possibilità non fossero così dicotomiche (tuttotutto nienteniente) sarebbe più semplice coinvolgere e sentirsi coinvolti, agganciare chi si sente solo e pensa di non poter fare nulla e di essere consegnato all’impotenza. 

 E, aggiungo, togliere di mezzo parte di quel mondo che si pensa partecipativo, ma è solo “adorativo”: seguire sui social militanti che pontificano NON è una forma di partecipazione, è una forma di influencing piuttosto subdola.

 La partecipazione non è passiva, ma attiva e ha poi il potere di rigenerare le energie: all’inizio si pensa di poter fare poco o di potersi mettere a disposizione un minimo, ma nel momento in cui ci si sente attivi e si vede che quel che si fa ha un senso e produce dei risultati siamo portati a fare sempre di più e a coinvolgere anche altri.

 Si scopre che non siamo impotenti e che forse, vediamo i complotti nelle capre volanti in cui hanno iniettato il 5g, ma non siamo capaci di accorgerci delle ovvietà: una massa che non partecipa è una massa governabile.

 Per quanto io comprenda appieno le difficoltà e anche l’astio di chi si impegna in prima persona e si trova pure a dover fare il missionario della partecipazione spandendo il verbo, continuo a pensare a quanto fosse pervasivo questo modo di fare negli anni ’70: lo strada per strada, il casa per casa, intendeva proprio questo, coinvolgere tutti.

 E se è vero che siamo pochi a coinvolgere e molti a voler essere coinvolti e convinti, in una sproporzione che rende questa via molto difficoltosa, è anche vero che, a mio parere, è davvero l’unica via: nuove forme di partecipazione, diverse, a misura di chi può 5 minuti e di chi può 5 ore.

 Eppure, e bisogna ricordarselo quando si dice “che la destra governa per colpa della sinistra”, questo processo non è possibile se le persone che si sentono escluse, sole, impotenti non si mettono in una posizione di ascolto.

Da una parte bisogna cambia comprendere che se non ti batti per te, non lo farà nessuno al posto tuo.

Alzati e fai qualcosa. Tutto può essere fatto, niente è mai perduto.




mercoledì 29 gennaio 2025

Le recensioni perdute. "La reputazione", la seconda wave di Ricciardi e "I figli degli uomini" di P. D. James!

 In questi ultimi tre-quattro anni in cui ho tralasciato un po' il blog, ho ovviamente letto molti libri, anche se meno di quelli che avrei voluto.

Lo studio si è preso tanto spazio, anche troppo, e non per mia volontà. Vorrei dire che sono una persona a cui piace studiare, ma in effetti non lo sono più. Sono in quella fase della vita in cui vorrei leggere solo quello che desidero e smetterla di stare sui libri, ma i parametri per le professioni culturali non sono d'accordo con me.

 Certo, forse se ai parametri richiesti corrispondesse uno stipendio adeguato, me ne farei una ragione, ma no, sto iniziando a convincermi che l'Italia non ama chi studia e cerca di punirlo in qualsiasi modo.

 Era una verità a cui era già arrivato brillantemente Sidney Sibilia col suo "Smetto quando voglio" mostrando laureati vari ed eventuali alle prese con vite precarie, vessazioni, povertà e umiliazioni. Ecco, quella non è una trilogia, ma un documentario e lo dico con un'amarezza che mi spiace trasmettervi. 

Nella mia prossima vita, farò un concorso pubblico basic a 20 anni e dormirò sogni beati sebbene poco retribuiti (ma almeno mi risparmio anni di tasse e notti insonni). 

 Volevo risparmiarvi questa intro, ma macino sconforto ormai da mesi e almeno qui ho pensato di potermi sfogare. Magari a furia di tediare il prossimo, il mondo mi apparirà migliore in questo foschissimo 2025.

 Comunque, dato che la mia fuga da ig e fb, riparte anche qua dal blog, sappiate che arriveranno ciuffi di recensioni di libri che ho letto e di cui non ho mai parlato. 

Forza che recuperiamo tutto!

LA REPUTAZIONE di Ilaria Gaspari, ed Guanda:

 A Roma, l'ho scoperto dopo aver letto questo libro, c'era negli anni '90 una curiosa leggenda metropolitana.

 Si raccontava infatti che nei camerini di un negozio di vestiario del centro per ragazzine, ci fosse una botola. Chi entrava lì dentro per provarsi una maglietta finiva dritta dritta dentro alla trappola e veniva rapita per essere avviata alla tratta delle bianche.

 Da questa suggestione (che ora coi social non voglio manco immaginare che piega prenderebbe), Gaspari costruisce un romanzo che avrebbe forse anche potuto intitolarsi "La calunnia" (questo è un post dove do suggerimenti non richiesti sui titoli dei libri).

 La protagonista è un po' insolita (finalmente) nel panorama delle protagoniste femminili italiche: Barbara è una studentessa non molto diligente, con le idee poco chiare per il futuro e fondamentalmente con uno spirito sfaccendato.

 Dovendo mantenersi, dato che non riesce a completare la sua laurea in filosofia, inizia a lavorare in una boutique per signore e ragazzine di Roma Nord (ossia di buona famiglia, tanto cash e anche un po' altezzose, regà è un riassunto non inviperitevi). 

 La gestisce un personaggio eccentrico e debordante, la bella e svagata Marie France, che porta avanti l'attività assieme ad altre due commesse.

 Il romanzo è occupato quasi interamente da questa figura che giganteggia, ammalia, fa, disfa e dissemina misteri, come la misteriosa figlia che nessuno ha mai visto. 

 Ma proprio quando il lettore si è convinto che si tratti della storia di una dandy d'altri tempi, irrompe la calunnia.

 Una ragazzina, con contorni che ricordano un po' il caso di Manuela Orlandi (una vera ossessione qua nella capitale), scompare e la calunnia inizia a correre: e se c'entrassero Marie-France e la sua boutique?

 Non vi dico ovviamente come finisce. Una scrittura molto corposa, ricca, visiva, che si prende tutto il suo tempo per descrivere ogni dettaglio. Consigliato a tutt* tranne ai minimalisti.


I NUOVI LIBRI DEL COMMISSARIO RICCIARDI di Maurizio De Giovanni, Einaudi:

 Nel tempo che ci ho messo a ricominciare a scrivere qua sul blog, Ricciardi è ormai tornato da circa tre libri.

 

 De Giovanni ha dunque riaperto la serie del suo commissario (che io avevo ipotizzato avesse chiuso perché un uomo che vede i morti di morte violenta e la seconda guerra mondiale rischiano di essere una combinazione inaffrontabile) con un piglio da una parte più angosciante, da un'altra più fotoromanzesco.

 Avevo pensato che avrebbe riaperto il filone usando la figlioletta Marta come protagonista. 

 Una venti-trentenne che indaga nel pieno del '68. Ci stava, anzi, De Giovanni se mi leggi (non sono una mitomane, è accaduto e ha persino commentato), pensaci che secondo me non è una cattiva idea!

 Invece la storia ricomincia a circa cinque anni dalla morte della povera Enrica.

 Ricciardi è un vedovo inconsolabile che si prende cura della figlia, assieme alla contessa di Roccaspina e ai nonni materni. Un'ombra però si è ormai stesa sull'Europa, le leggi razziali sono prossime e molti personaggi iniziano a posizionarsi di conseguenza. I figli di Maione si scoprono fascisti, con costernazione del padre, e altri, come l'untuoso Garzo, si trovano braccati e devono mettere in salvo la famiglia.

 Colpo di scena, anche Ricciardi non è immune da questa crudele caccia all'uomo perché si scopre che il padre di Enrica è di lontane origini ebraiche, cosa mette in pericolo tutta la famiglia, compresa Marta.

 Il commissario continua a indagare, Bambinella se la vede brutta, Marta ha ereditato qualche super potere paterno in effetti, ma un po' diverso e in realtà, in modo inaspettato, dopo il ritorno forzato in Cilento, la famiglia Ricciardi si allarga.

 In tutto questo purtroppo Livia è viva, vegeta e invece di starsene al sicuro, cortaggiata e canterina in Sudamerica, decide inopinatamente di tornare alla vigilia dello scoppio della guerra perché una stalker è per sempre.

 Devo dire che l'ultimo, "Volver", malgrado sciolga qualche nodo e spieghi un po' meglio il passato del commissario, ha davvero qualche contorno da telenovela turca. 

 Ma è anche vero che a me come scrive De Giovanni piace troppo, sono ore di puro relax, di lettura felice e perdono tutto, anche la commedia dell'agnizione.


I FIGLI DEGLI UOMINI di P. D. James:

 Nel luccicante 2006, (ma secondo voi i primi anni 2000 mi appaiono ora meravigliosi perché ero più giovane o in effetti il mondo era migliore? Io tenderei alla seconda) uscì il film "I figli degli uomini", (cho scoperto scrivendo questo post essere di Alfonso Cuaròn) che all'epoca mi colpì molto, mi stupì molto, ma fummo in tre gatti a vedere.

 Racconta di un futuro in cui non nascono più bambini e quindi la società si sta sfaldando, condotta a una decadenza inquietante.

 Non è, intendiamoci, che non nascono per scelta. Gli esseri umani non sono improvvisamente childfree, semplicemente, di punto in bianco, uomini e donne sono diventati sterili.

 La storia inizia quando gli ultimi nati hanno circa 20 anni. Sono una generazione nichilista, viziata e anche violenta. Da una parte infatti sono stati vezzeggiati e coccolati in ogni modo e dall'altra sono consci della loro rarità e preziosità e anche di essere gli ultimi eredi del mondo.

 Nel film Theo, è un ex attivista politico, che viene coinvolto dalla sua ex moglieJulian (ancora attivista) nel salvataggio di Kee, una giovane donna incinta, la prima da vent'anni. L'idea è portarla in salvo presso un misterioso gruppo di attivisti che si muove su una barca in mezzo al mare (una sorta di incrocio tra Greenpeace e una ONG).

  Il film aveva alcuni pezzi interessanti, ma poi come molta fantascienza, adesso è rovinato irrimediabilmente dal fatto che molta gente crede che le teorie del complotto che funzionano molto bene nei libri di fantasia, siano realtà. Se la realtà diventa distopica, per dirla meglio, la distopia diventa meno interessante.

 La cosa che mi colpì di più all'epoca fu comunque il fatto che il protagonista a un certo punto ha l'infelice idea di mettersi in infradito e scappa così per metà pellicola facendosi un male molto percettibile tra gli spettatori.

 Scoprii già ai tempi che era tratto da un libro omonimo che però è sempre stato abbastanza introvabile. Siccome le vie dei libri sono infinite, lo scorso anno l'ho reperito al bookcrossing del mercato coperto dove vado a comprare le verdure.

 Il libro, per circa la metà, è anche molto meglio del film. Ci sono delle frasi illuminanti, profetiche e contemporanee che rendono anche chiaro come l'autrice avesse un intento fantascientifico, ma con forti venature di critiche sociale. 

 Ci sono delle cose letteralmente profetiche, come il trattamento riservato agli immigrati (ha senso catturare, rinchiudere e rimpatriare in un mondo che morendo, tipo il nostro?) e anche una parte di dualismo politico che nel film non c'è.

 Se nel film tutta la storia ruota attorno a Theo e al gruppo terroristico capeggiato dall'ex moglie, nel libro è presente il personaggio del cugino Nigel, una sorta di premier plenipotenziario quasi dittatore.  proponendo un dualismo interessante dei due modi di affrontare una catastrofe: la rassegnazione e il delirio di onnipotenza.

 Purtroppo il romanzo si incarta un po' sul finale e posso anche capire perché Cuaròn abbia preferito fargli prendere la deriva complottara e anche un po' più speranzosa.

 Se lo trovate vale la pena. Piccolo appunto: avrebbe avuto molto più senso per una serie di motivi chiamarlo "I figli delle donne".


lunedì 20 gennaio 2025

La storia di Lella Lombardi raccontata (a voce) da sorella YA! (E qualche considerazione sparsa sulla diaspora da META).

 In questi giorni, ma in generale in questi tempi oscuri, sto cercando un sistema per abbandonare META senza però abbandonare anche tutte le persone che seguono assiduamente la pagina e con cui ho parlato, discusso, riso, insomma con cui ho intessuto rapporti (usando i social, come credo si dovessero usare in principio in modo sano) in questi ultimi 13 anni.

 Bisogna dire che, per quanto la consapevolezza di un monopolio social fosse evidente, non l'avevo mai avvertita in tutta la loro potenza come in questo momento.

 Un po' come nella storia della rana che bolle lentamente nell'acqua e alla fine si ritrova stecchita e pronta a finire in qualche piatto transalpino, non mi ero resa conto di come negli ultimi anni (con un'accelerazione credo abbastanza marcata dal covid in poi) siano pian piano spariti tutti i concorrenti dei social più diffusi.

 Non è stato "inventato" quasi più nessun posto virtuale nuovo dove ritrovarsi e che abbia una buona diffusione. 

 Ci siamo tutti e tutte polarizzati sugli stessi che fondamentalmente stanno pure tendendo alla replicazione unica e incontrollata di Tik Tok (che nasando quanto fosse molesto e potenzialmente in grado di farmi perdere intere giornate peggio di fb e ig mi sono sempre rifiutata di scaricare, anche se so come funziona e l'ho visto parecchie volte).

 I blog sono diventati un fenomeno di nicchia manco fossero fanzine, idem i forum, tumblr sembra quasi preistoria, snapchat ho il sospetto che i nati dopo il 2010 non sappiano nemmeno cosa fosse, ergo anche volendo migrare dalla grande lobby dei social, capire dove andare e dove spostarsi con le proprie discussioni non è che sia semplicissimo.

 Mentre faccio le mie ricerche (oggi ho scoperto l'esistenza di substack), continua la mia idea di alimentare nuovamente questo blog e ne approfitto per condividere qui l'ultimo video della sorella YA, che da qualche mese ha aperto un canale youtube dedicato alla Formula 1.

 Al netto del cuore di sorella che mi spinge a farlo, in realtà in questo caso specifico questo video gliel'ho suggerito io e ho insistito tantissimo in questi mesi perché lo facesse. Infine, ho persino sfoderato le mie doti di archivista aiutandola a trovare alcune fonti per i testi.

 Si tratta della storia di Lella Lombardi, unica pilota donna della F1 ad andare a punti. 

 Ebbene sì perché qualche donna, effettivamente, in F1 c'è stata e la storia di Lombardi è davvero molto interessante soprattutto se consideriamo che si svolge a partire dagli anni '60 e che non proveniva da una famiglia borghese, ma era figlia di un macellaio di provincia senza nessuna specifica passione per i motori.

 Ma ciancio alle bande! Sorella YA saprà sicuramente raccontarvi la storia, appassionante, meglio di me

 E magari nel prossimo futuro, chi sa, potrei fare un post sulla Formula 1: non la seguo da anni, ma ho molti di ricordi di quando ero ragazzina e vedevo le gare assieme a mio padre che è un grandissimo appassionato.

Buona visione!





lunedì 13 gennaio 2025

Le mie letture dell'estate 2024! Tra giallisardi e gialli islandesi, cucine angloiraniane, orrori islandesi, delusioni inglesi e addii svedesi

 Assolutamente incredibile (ma vero) avevo lasciato in sospeso il post con le recensioni delle mie letture estive dallo scorso settembre.

In nome dei miei rinnovati buoni propositi di seguire di nuovo maggiormente il blog a sfavore dei social che stanno tendendo verso la broligarchia reazionaria, inauguro questo nuovo corso terminandolo dopo mesi.

 In realtà lo scorso anno anno temo di aver passato davvero troppo tempo sul cellulare a sfavore della scrittura e della lettura.

 E' stato sicuramente colpa dello stress che porta a fare cose il meno impegnative possibili nel tempo libero, ma è stata più colpa mia che non ho saputo gestire la cosa.

 Cercherò di tornare ai bei vecchi tempi nonostante tutti i limiti dati dal lavoro e dal fatto che, contro la mia totale volontà e per colpa della burocrazia italiana, sono dovuta tornare sui libri universitari.

 Un giorno, quando non mi darà ai nervi anche solo il pensiero, racconterò bene la storia, (no non sono un'insegnante come sa chi legge il blog da secoli, sì la laurea magistrale ce l'ho già da 15 anni, ma per fare un lavoro sottopagato non basta manco più quella).

 Intanto vi risparmio i miei rancori personali e vi lascio le recensioni.

Buona lettura!


GIALLOSARDO AAVV Pickwick ed.:
 
 Raramente mi piacciono le raccolte tematiche perché in generale non mi sembra che gli scrittori e le scrittrici rendano troppo bene quando si tratta di scrivere racconti “su commissione”, legati a temi o, come in questo caso, luoghi specifici.
 
 Ci sono però sempre felici eccezioni e “Giallosardo” è una di queste. 
 Devo dire che la media dei racconti è molto buona, si vede chi come Fois è del mestiere, e chi non lo è particolarmente come Ilenia Zedda (il suo racconto mi sembra un esemplare tipico di scuola di scrittura creativa: trick di base interessante, ma poi la resa si impiglia in alcune sottigliezze tipo la coerenza della trama).
 
 Avevo nostalgia della Sardegna e l’ho letto durante alcuni giorni caldissimi a Rodi. 
Assieme ai gyros e all’acqua cristallina, ha aiutato a farmela passare.

 
L’UOMO INQUIETO di Henning Mankell e SOTTO LA CITTA' di Arnaldur Indridason:
 
 I gialli nordici hanno sempre il loro fascino. 
 
 Il problema, nella grande mole delle traduzioni, è non incappare in frequenti delusioni.
 Quest’anno, siccome ho avuto una primavera/estate impegnatissima ed ero riuscita a leggere poco, ho voluto andare sul sicuro e ho puntato due certezze: Mankell e Indridason.
 
 Per puro caso (ossia quello che passa l’usato) ho trovato “L’uomo inquieto” senza sapere fosse l’ultimo capitolo della lunghissima serie del commissario Wallander.
 
 C’è da dire che in generale scrittori e scrittrici raramente trattano bene le loro creature e sanno dargli degni finali, ma in questo caso Mankell è riuscito in un libro molto malinconico, a tratti struggente, a tirare tutte le fila della lunga vita del suo commissario.
 
 La storia inizia quando Linda, l’unica figlia di Wallander, poliziotta anche lei, si fidanza con un broker abbastanza ordinario, figlio di Hakan von Enke un importante ammiraglio svedese che fu coinvolto in un famoso caso di spionaggio ai tempi dei governi di Olof Palme. 

 Un sottomarino russo era stato individuato in acque svedesi e, invece di essere costretto a riemergere, all’ultimo era stato lasciato andare

 Hakan non si è mai dato pace per l’evento e aveva iniziato a indagare, convinto che vi fosse una spia del Kgb interna alla marina svedese.
 
 Tutto questo non interessa poi molto Wallander finché prima von Enke e poi sua moglie svaniscono nel nulla. C’entra forse questo antico intrigo internazionale? E, nel caso, chi è che spiava chi e quando?
 
 La storia, benché ricca di colpi di scena, è molto chiara e  lascia ampio spazio alla chiusura di tutte le linee narrative della vita di Wallander rimaste in sospeso.

 Sappiamo che fine farà Bajba, il grande amore estone del commissario, sappiamo cosa accade all’ex moglie e cosa alla figlia, conosciamo il suo crepuscolare tramonto che non anticipo per non fare spoiler, ma spezza il cuore.
 
 Un grande autore che è riuscito a dire degnamente addio ad un grande personaggio con un’indagine interessante e un senso della fine dignitoso e palpabile.
 
 Il romanzo di Indridason invece non ha una particolare rilevanza nella serie del suo commissario Erlendur. 
 Ambientato nell’esotica Islanda, racconta una cruda storia di violenza sulle donne e di tragici e ingiusti tranelli del destino.
 
 Un uomo qualunque viene trovato assassinato nel suo appartamento. Sembra un delitto d’impeto, ma chi mai potrebbe voler uccidere un uomo qualunque? Qualcuno, probabilmente, che sa qualcosa in più, un segreto dietro la maschera della normalità.
 
 Inizia un viaggio a ritroso nella cr. Non dico molto di più: bello da leggere, ma abbastanza tosto per gli argomenti trattati.

 
LA CUCINA COLOR ZAFFERANO di Yasmin Crowther ed. Guanda:
 
 Ogni anno mi piace leggere un romanzo ambientato in Medioriente/India. 
  Non so perché, ma mi piace l’idea di leggere qualcosa di scritto o ambientato in luoghi lontani geograficamente e culturalmente da me. 

 Questa estate è stato il turno di “La cucina color zafferano”, ambientato in parte in Inghilterra e in parte in Iran.
 
 Le protagoniste sono Maryam, iraniana immigrata in Inghilterra ai tempi della rivoluzione islamica, e sua figlia Sara, nata dal matrimonio con un gentile coetaneo inglese.

 Tutto parte da una tragedia involontaria: Maryam si rivela violenta verso il nipote, figlio della sorella minore appena morta e arrivato da poco dall’Iran. Sara cerca di difenderlo e nel tentativo si ferisce perdendo il bambino che ha in grembo.
 
 Disperata per l’avvenimento, Maryam decide di tornare in Iran ad affrontare i fantasmi del passato

 In una serie di flashback la scopriamo ragazzina, figlia di un generale dello scià, desiderosa di diventare infermiera e di decidere la sua vita. Riuscirà a fare tutto quello che desidera, ma pagando un prezzo troppo alto nel fisico e nell’anima che la traumatizzerà per sempre.
 
 Allora. La parte migliore sono i flashback dell'infanzia e della giovinezza di Maryam in Iran. Finché il libro parla delle sue vicissitudini fino al momento della partenza per l'Inghilterra devo dire che merita. Il resto, che purtroppo è parecchio, è abbastanza noioso.

 La coda del libro è inutilmente lunga e assume anche vaghi contorni da telenovela turca, le parti dedicate alla figlia Sara sono abbastanza prive di forza.

 Non lo consiglierei a meno che non siate appassionati di storia dell’Iran, per il resto perdibilissimo, infatti l’ho lasciato a Rodi.
 
 
LA STRANIERA di Claudia Durastanti ed. La nave di Teseo:
 
 Interessante e molto molto molto difficile da scrivere questo memoir di Claudia Durastanti.
 
 Erano anni che volevo leggerlo e quando finalmente qualcuno l’ha provvidamente lasciato all’usato mi ci sono fiondata. 

 Conoscevo a grandi linee la storia: i genitori dell’autrice sono entrambe persone sorde che non comunicano attraverso la lingua dei segni. 

 Inoltre Durastanti è nata a Brooklyn dove si erano trasferiti anni prima i nonni materni, lucani, alla ricerca di fortuna e dove lei ha vissuto fino ai sei anni, quando è poi rientrata in Basilicata.
 
 Dico un memoir difficile perché il grande problema dei memoir è sempre lo stesso: perché quelli che sono fondamentalmente fatti tuoi dovrebbero avere un valore per qualcuno? 

 Rendere il personale qualcosa di universale è davvero un’impresa enorme e il pericolo di tracimare nel diario psicanalitico è sempre dietro l’angolo, anche quando si ha una storia interessante da raccontare.
 
 Durastanti riesce a evitare questo fosso non solo perché è brava a raccontare, ma soprattutto perché ha scelto una chiave di lettura e vi è rimasta fedele (quasi) sempre dal titolo al finale: il concetto di straniero nel senso più ampio possibile.
 
 Il senso di estraneità è la base del libro: sono estranei ad un mondo basato sulla parola e i suoni i suoi genitori sordi, è straniera lei quando nasce in America ed è straniera quando torna in Italia, la povertà la rende estranea al benessere dei suoi compagni di classe ed è estranea al contesto lavorativo nel quale osa catapultarsi dopo la laurea poiché il mondo culturale in Italia è appannaggio per la quasi totalità di eredi alto-borghesi.
 
 Dà, a mio parere (anche se fatico a sopportarne i toni un po’ troppo epici qui e lì) il meglio nella prima parte quando riesce a raccontare con l’amore, il dolore, nonché il distacco necessario, due genitori complessi, tormentati, non integrati loro malgrado, anche per loro ostinata e rivendicata volontà.
 
 La seconda ha alcune pennellate che ho trovato interessanti, in primis la sensazione di sentirsi un simpatico trofeo sociale per i propri datori di lavoro: ehi, guarda, ho trovato l’intelligente presentabile tra i povery e la introduco in società. Una sorta di versione moderna del romanzo ottocentesco coi nobili che innalzavano lo zotico brillante di turno per divertimento.
 
 Per altri versi ho trovato mancasse qualcosa. Pensavo e speravo in una qualche complessa riflessione politica sull’estraneità di classe, anche perché aveva tutto il materiale per raccontarla da un punto di vista interessante.
 Invece su quel punto l'ho trovata stranamente debole, l'unica in cui ogni tanto mi è sembrata debordare nel diario personale abbassando il livello del racconto.

 In generale comunque un gran bel libro che consiglio e che è meritatamente finito nella cinquina dello Strega del suo anno. 


ELIZABETH GEORGE:

Questa giallista statunitense era la passione di una mia ex collega di libreria. 

 Quando usciva un suo nuovo libro impazziva letteralmente di gioia e, per anni, me l'aveva caldamente consigliata.

 Io non ho particolare passione per i giallisti anglosassoni quindi avevo tentennato a lungo e mi sono decisa solo questa estate.

 Presa da un moto di ottimismo e allettata dai numerosi titoli in vendita nella mia libreria dell'usato di fiducia, avevo addirittura comprato due titoli!

 Ebbene. Li ho iniziati entrambi e in entrambi i casi ho cercato disperatamente di andare avanti nella trama con tutte le mie forze. Non ci sono riuscita, troppo noiosi, troppo dispersivi e pieni di lungaggini che non lasciavano mai entrare nel vivo dell'indagine.

 Magari sono stata sfortunata io, ma mi sa che non sono il tipo che ama la cara Elizabeth. Mi spiace.

giovedì 9 gennaio 2025

Buon 2025 con una presentazione romana di "Stasera faremo cadere il cielo" e (buoni) propositi!

E' iniziato questo 2025, vorrei dire bene, ma siamo solo al 9 gennaio e già sono le cattive notizie non si sono fatte attendere.

 A questo aggiunto un malumore generalizzato per la geopolitica mondiale che sembra sempre più in mano, da una parte a dittatori con manie di grandezza, dall'altra a un'oligarchia turbocapitalista con manie di grandezza. In mezzo mi piacerebbe dire "tutt3 noi", ma non è vero perché una buona fetta della popolazione, con una cecità a me inspiegabile, è affascinata da questa gente e la sostiene.

 Il nuovo corso dei social, immagini AI, fake news, padroni privati di mezzi di trasmissione e propaganda che influenzano la politica mondiale, mi sta portando a un distacco progressivo dal loro uso. Li uso ovvio, ma la voglia di postare e condividere è praticamente scomparsa.

 Che questo voglia dire un ritorno a nuovi post del blog e magari più tempo dedicato, in generale, alla scrittura? 

 Chissà. Magari non tutti i mali vengono per nuocere.

Intanto lascio la locandina dell'evento di sabato 25 alla libreria Tomo a Roma. Con altre belle persone presenterò "Stasera faremo cadere il cielo", l'antologia di fantascienza queer dove c'è anche un mio racconto!




martedì 17 dicembre 2024

I consigli del Natale 2024! Ereditiere svizzere, fake news storiche, ambientalismo, Susan Sontag e Sylvia Plath, pittrici nella capitale, orsi pignoli, ricette favolose e minacce lavanda!

 Padre l’altro giorno mi ha rimproverata perché non curavo più il blog.

Ma come, ce l’hai da tutti questi anni e adesso lo lasci andare così.

 A prescindere dal suo sempiterno ruolo genitoriale, in fondo ha ragione, quest’anno è stato proprio un anno di magra scrittoria e il prossimo, da un certo punto di vista non sarà, temo, migliore perché (poi vi racconterò quando avrò fatto almeno la metà degli esami e la fine mi sembrerà meno lontana e io sarò meno infuriata) ho dovuto iscrivermi ad una scuola di specializzazione universitaria (no, non faccio l’insegnante, è sempre per archivisti).

 Quindi insomma il tempo è quello che è, e tra lavoro principale, lavoretti collaterali, perché ormai la vita costa talmente tanto che il lavoro principale non basta più da solo, e università, i momenti da dedicare al diletto sono davvero molto pochi.

 Ma sogno sempre che le cose migliorino, che questo periodo geopolitico ed economico orrendo prima o poi finisca e che si riesca a passare il tempo a fare qualcosa che piace, come scrivere, leggere e disegnare, senza che il lavoro e le ansie fagocitino ogni pezzetto delle nostre non sempiterne vite.

 Comunque, ho voluto, quale atto di riappropriazione rivoluzionaria del proprio tempo, riuscire a scrivere un post di consigli natalizi.

Come ogni anno mi sembra di non avere nulla da consigliare e come ogni anno ho titoli per almeno due post. Intanto godiamoci questo, magari riesco a trovare il tempo per il secondo prima della vigilia di Natale (altrimenti, comunque, c’è sempre la Befana).

Buona lettura!


LYDIA, L’ULTIMA DEGLI ESCHER di Lukas Hartmann, Armando Dado ed.:


Natale, tempo di Mitteleuropa. La principessa Sissi, le usanze chiaramente nordeuropee che a Roma fanno un attimo sorridere (gli abeti finto innevati con 15 gradi fuori dalla finestra), il Ciobar con la panna che fa tanto caffè viennese in our dreams e altre minuzie cospirano per condurre la mia mente verso libri da impero austroungarico.

 Quest’anno la palma spetta a “Lydia, l’ultima degli Escher” la biografia di una ricca ereditiera ottocentesca che, agli occhi di una donna contemporanea, grida vendetta.

 Cosa spinge la donna più ricca della svizzera, unica erede di un impero ferroviario, a non sfruttare la propria libertà, ma a sposare il tipico tizio che tuo padre non voleva sposassi e hai invece sposato letteralmente pochi giorni dopo la sua morte?

 La risposta dovrebbe essere: un grande amore. Ma non sembra essere così visto che poco dopo si è perdutamente innamorata di un pittore. Quindi boh, autosabotaggio? Di sicuro questo libro potrebbe contenere la risposta.

Ritratto di signora”, ma reale. Una biografia per tornare a quel periodo storico al limitare tra due mondi, come il nostro.



ROMA PITTRICE. Artiste al lavoro tra XVI e XIX secolo, a cura di Ilaria Marielli Mariani, Raffaella MorselliOfficina Libraria ed.:

Avete presente il tipico “regalo per un medico” che immancabile arriva come richiesta in libreria tutti gli anni?

 Ebbene, per quest’anno ho finalmente un consiglio convincente!

Ovviamente non è solo per un medico, è un regalo un po’ più importante per una persona “con cui fare bella figura” che, per inciso, potrebbe anche essere vostra madre.

Si tratta del catalogo della mostra “Roma pittrice” attualmente in svolgimento al Museo di Roma a, sì, Roma.

Non è “una mostra sulle pittrici donne” come se stessimo parlando di rarità floreali della Papua Nuova Guinea, ma una mostra estremamente ricca sulle artiste attive nella capitale tra ‘500 e ‘800.

Sono TANTISSIME. E dove stavano?

 Principalmente in collezioni private e nei magazzini delle opere non esposte di musei, pinacoteche e quant’altro. Quindi, insomma, come al solito non è che le donne prima del 1968 stavano chiuse in casa, semplicemente la memoria le ha occultate, perché ricordiamocelo car* miei, da un certo punto di vista la memoria è sempre un esercizio di potere.

Nel catalogo, bello corposo, troverete un interessante saggio introduttivo, le opere esposte e anche le biografie delle autrici, una vera chicca perché di molte allo stato attuale si sa molto poco e si è dovuto scartabellare negli archivi (suggerimento: storic* scartabellate un po’ di più) per trovare delle informazioni.

Regalatevelo, o fatevelo regalare. Ah, ovviamente non dimenticatevi dei medici, apprezzeranno.


OPS!ABBIAMO UN PROBLEMA di Jacob Grant, Lapis Edizioni:

Chiaro segno del mio invecchiamento: alcuni libri per bambin* mi commuovono.

 Io non ho nessun particolare trasporto per i libri per bambin* (neanche per i bambin* devo dire), ma ultimamente, vuoi che sto invecchiando un po’ pure io, vuoi che i figli e le figlie delle mie amiche mi stanno facendo riavvicinare involontariamente al mondo degli infanti, qualcosa sta cambiando.

Questo illustrato ne è la prova. 

 Si tratta della storia di un orso molto pignolo (che mi ricorda caratterialmente un po’ Dolcemetà) fissato con ordine e pulizia. 

 Un giorno si trasferisce in una nuova casa con la sua fida orsetta di pezza MA qualcosa non va e l’orso inizia a rovistare ovunque finché diventa chiaro che l’inflessibilità alla lunga può fare seri danni, anche alle persone a cui vogliamo più bene.

Un libro che forse dovrebbero leggere molti adulti.


SONTAG. UNA VITA di Moser Benjamin ed. Bur:

 Per troppi anni Susan Sontag è stata messa da parte. Ricordo che quando Dolcemetà scriveva la tesi, ci mettemmo davvero troppo a recuperare da qualche parte le sue “Note sul camp” e che dei suoi testi in generale, in circolo, non si trovava davvero nulla.

Finalmente, in nome dei corsi e ricorsi storici, Sontag sta tornando in libreria e questo Natale è uscita anche questa sua corposa biografia che attinge anche ai suoi archivi personali.

Il prezzo, come quello dei libri in generale, è veramente alto (32 euro), ma almeno sono 700 pagine quindi ciccia da leggere ce n’è.

Sì lo so: la carta, i diritti, i traduttori, i distributori. So benissimo che costa tutto. Ma non è che siccome lo so, il mio stipendio e quello di tutti gli altri sì alza, quindi se qua non si fa qualcosa i libri rimarranno sugli scaffali, pure quelli belli.

Intanto approfittate della tredicesima, vostra e degli altri, e fatevelo regalare.


QUANTO LONTANO SIAMO GIUNTI. Lettere alla madre di Sylvia Plath ed. Guanda:

Lessi questo libro una quindicina di anni fa, in una vecchissima edizione posseduta dalla biblioteca di Bergamo e all’epoca mi piacque tantissimo.

 Sono le lettere che Plath scrisse alla madre e che restituiscono assai più dei diari un’immagine reale della poetessa. I diari infatti sono stati manipolati, tagliati, aggiustati e dio solo sa che altro dal marito, Ted Hughes, che usò la scusa del “non voglio turbare i miei figli”. Il sospetto, visto il suicidio di Plath e della successiva compagna di Hughes, è che lui non facesse questa grandissima figura.

 Com’è e come non è, almeno queste lettere tra le sue grinfie non sono finite e sono vive, vivaci, dubbiose, arrabbiate, entusiaste, tristi.

 Sono lo spaccato di vita di una ragazza ricca di talento, con poche risorse economiche, tante aspirazioni e molte ansie per il futuro.  Lettere personali nel senso più completo del termine, che restituiscono un ritratto di persona reale e senza filtri.

Regalo idealissimo per grandi lettrici e grandi lettori.


IL CAPANNO DI ASH di Suzy Wang, Bao Publishing:

Suzy Wang è un’autrice che amo moltissimo. Ha quella capacità, estremamente difficile da coltivare e secondo me frutto di un talento naturale (con buona pace di chi pensa che la propensione naturale non esiste perché secondo me, invece, esiste eccome) per le sfumature. 

 Le sue graphic novel, dal tratto che ricorda i fumetti giapponesi old style e si rileggono con piacere più e più volte di seguito e ogni volta si scoprono particolari nuovi, considerazioni nuove, dettagli che a una prima occhiata erano sfuggiti.

Ash” è un libro bellissimo che racconta tante cose insieme senza nominarne esplicitamente nessuna.

È una cosa che apprezzo particolarmente nell’epoca dei “romanzi a tesi”: devo dimostrare una cosa e te la devo dimostrare così esplicitamente che devo dirtela a lettere cubitale e ripetertela 50 volte senza lasciarti immaginare o ragionare. La morte, insomma, dell’astrazione.

In questo libro invece si mescolano tante cose: riflessioni sull’identità di genere, ambientalismo, solitudine, interdipendenza dell’umanità con la natura e interdipendenza del singolo con la collettività. Ho amato in particolar modo quest’ultimo tema perché se c’è una cosa che sto iniziando a non sopportare più è la gente che inneggia allo starsene soli in casa con loro stessi perché tutti gli altri sono una delusione.

Posto che anche io evito volentieri tanta gente, è abbastanza ovvio che il rapporto con l’altro necessiti di fatica, impegno, gestione del conflitto e opinioni divergenti. Avere un rapporto con gli altri è faticoso, ma è anche indispensabile per vivere in modo più ricco la propria vita.

(E no, le esperienze di vita negative che abbiamo tutt* non mi faranno cambiare idea).

È questo un po’ il cuore di questo romanzo, dove un* ragazzin* che si sente poco compreso dai genitori che derubricano a “una fase” il suo bisogno di affermare la propria identità di genere, il suo ambientalismo e il rifiuto di alcune consuetudini viste come segno di maturità (la patente) decide di partire alla ricerca del capanno nel bosco del nonno defunto.

Lui sa che questo mitico capanno esiste tra le montagne boscose attorno al vecchio ranch di famiglia e si attrezza per ritrovarlo durante le vacanze estive dagli zii. Riuscirà nel suo intento e partirà per lui un periodo di solitudine selvaggia assieme al suo amato cane, in una profonda connessione con la natura.

Sembrerebbe il paradiso, invece con sua enorme sorpresa scoprirà che l’essere umano è, fino in fondo, un animale sociale e l’isolamento non salva noi stess* e neanche il pianeta.

Bellissimo. Consigliato dai 10 ai 110 anni.


IL RICETTARIO DEI FRATELLI GRIMM di Robert Tuesley Anderson, Guido Tommasi Editore:

 In un mondo in cui è sempre estate, mi sono appassionata a un trend di Instagram in cui si propongono le ricette dei romanzi fantasy d’impianto medievale.

 

 Dato che nell’idea del medioevo è sempre inverno, è tutto un tripudio di salse, stinchi di maiale grassi che più grassi non si può, contorni di mele bagnate nella sugna, alcolici ricolmi di erbe aromatiche e torte frollose che possono essere ripiene di mele speziate o maiale frollato chi lo sa.

 Ho il sospetto che siano piatti più belli a vedersi che buoni a mangiarsi, ma quando se non a Natale è bello navigare nell’eccesso alimentare?

Il ricettario dei fratelli Grimm” propone ricette ispirate e nominate nelle fiabe dei fratelli tedeschi che, andando a memoria, non pasteggiavano a pasta con le vongole.

 Sì, certo, nelle fiabe si mangiavano anche bambini, ma ho idea che ci troveremo davanti a una versione woke. Maledetto politicamente corretto che occulta il sano cannibalismo.


LA MINACCIA COLOR LAVANDA di Irene Villa ed. Ets:

 Quanti libri Lgbt ci sono in giro (finalmente) da qualche anno a questa parte? Tanti davvero tanti.

Quanti di questi libri, effettivamente si occupano della prima lettera dell’acronimo alias la L alias le lesbiche e il lesbismo in generale? Pochi davvero pochi.

 È ancora, se non difficile sicuramente più raro, trovare fumetti, romanzi e saggi che raccontino e parlino del lesbismo, di fatto confermando uno dei più grossi problemi della comunità che noi lesbiche letteralmente ci portiamo in ogni dove: l’invisibilità.

 Questo libro di Irene Villa, frutto della sua ricerca di dottorato a Verona, parla del lesbismo nella teoria femminista e nel mondo queer. Finalmente un contributo teorico serio, ragionato, contemporaneo e, posso assicurarvi, molto scorrevole da leggere sul lesbismo.

 Se infatti prima avevamo solo il problema dell’invisibilità, adesso abbiamo anche il problema della sineddoche, quella simpatica forma retorica per cui si nomina una parte e si intende il tutto.

Ossia si pensa che alcune derive terf appartengano a tutte e non solo ad alcune.

Quindi bene che finalmente vengano pubblicati nuovi studi che portino aria fresca, nuove voci, un più variegato pensiero critico e mostrino che siamo esattamente come tutti gli esseri umani: pensiamo e ragioniamo in modo diverso anche condividendo uno stesso orientamento sessuale.


STORIE FALSE di Michel Pretalli e Giovanni Zagni, Mimesis ed.:

La storia è maestra?

Mica tanto. Come ci insegna essa stessa, in un’interessante contraddizione, come umanità abbiamo una certa coazione a ripetere gli stessi errori.

 Le fake news, le bufale, le truffe, la ciarlataneria e qualsiasi declinazione possibile del tema e del termine ci inseguono sin dagli albori della storia e ciclicamente, con una facilità impressionante, ci cadiamo. O almeno ci cade una buona parte della popolazione con rischi che vanno da una personale perdita di denaro a una guerra mondiale con milioni di morti.

Storie false” mette insieme alcune delle bufale più conosciute, alcune in grado di cambiare (sempre in peggio, non vi preoccupate) il corso della storia.

Del resto, a giudicare dalle immagini AI che girano su fb in cui teneri agricoltori, bambini con torte e vecchine adorabili chiedono di essere solo salutati perché “nessuno lo fa”, scatenando selve di commenti entusiasti, è già un miracolo che la società non sia ancora collassata.

Pare sia un libro divertente. Immagino che potremmo rientrare nel black humor.

Da regalare al parente complottaro, per non vederlo mai più a pranzo di Natale.

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