domenica 31 maggio 2015

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Strani casi"

Ed ecco la seconda vignetta della giornata. Uno degli strafalcioni più comuni tra i clienti è l'improbabile accostamento tra un titolo e un autore, come quello di cui sotto. Ecco un bel cose realmente avvenute! Lo giuro! "Strani casi".


Ps. E' iniziato il periodo delle nomination ai Macchianera Awards 2015. Così, ve lo dico nel caso voleste votarmi (cosa che vi ripeterò svariate volte nei Ps dei prossimi post, sappiatelo -.-")-

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Ahahahaha"

Ed ecco la prima delle due cose realmente avvenute, lo giuro, che posterò in giornata.
 Tornata dalle ferie, sana e riposata, ecco che i clienti mi sollazzano in tutta la loro assurdità. Fortunatamente il riposo mi ha ben disposto nei confronti di tutto ciò, facendomi trovare il vasto mondo assurdo e comico. Vediamo quanto dura.
Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Ahahahaha"!




giovedì 28 maggio 2015

L'estate, i fantasmi e la perdita dell'innocenza. Apprezzare il simbolismo decadente di una stagione estrema leggendo un po' di sano summer goth: Tony Sandoval, i suoi mostri e i favolosi acquarelli.

 Come ogni inizio estate, sono stata presa dalla smania di leggere libri horror. 
"Stand by me" un film assolutamente da rivedere ORA
Non quell'horror splatter
o melenso che va adesso, indeciso se sia più cool descriverti per filo e per segno come vengono estratti gli intestini da uno zombie in crisi d'astinenza da carne umana o il vampiro sexy che si dimentica di essere un non morto e procrea come se non ci fosse un domani. 
Io parlo di quel sano horror gotico di un tempo, di Poe, di Lovecraft e dell''800.
 In un post dell'anno scorso, descrissi com'era nata questa mia passione, ampiamente caldeggiata dall'isolamento a cui vengono costrette le persone recluse in una sezione elettorale.
 C'è chi collega le mostruosità al freddo e chi alla canicola agostana. Io sono della seconda scuola. L'estate infatti, racchiude in sè molte caratteristiche che la rendono facile all'orrore:
1) E' una stagione dalle caratteristiche climatiche estreme, in cui il caldo intenso rende talvolta difficile la concentrazione e facile la confusione, anche tra diversi piani di realtà.
2) E' probabilmente la stagione più simbolica. 
 In realtà tutte le stagioni hanno un loro simbolismo, se ci si fa caso, nella storia della letteratura, ma anche nella nostra vita, ogni stagione, ispira qualcosa di specifico.
I "Goonies", altro classico adolescenza-paura
 La primavera è una stupida e leziosa mezza stagione in cui non puoi ambientare niente di orribile: i prati sono in fiore, i cerbiatti amoreggiano, le ragazze sospirano, i ragazzi s'innamorano. Tutto è uno stupido cuore, amore, sotto un ombrellino che ripara dagli acquazzoni.
 L'autunno ha tutto quel cotè di riflessioni sulla vita, chi sono, dove vado, come sono arrivato qui. Domande esistenziali che o ti cambiano o ti affogano o, generalmente, ti lasciano al punto di prima.
 L'inverno è un'altra stagione estrema in cui generalmente si consuma qualche tragedia. Stare troppo chiusi in casa non ha mai fatto bene a nessuno, quei caminetti e quelle stufe sono il motore di infiniti drammi familiari (ci sarà un motivo se "Anna Karenina" l'ha scritto un russo). A stare troppo in famiglia ci si rimette la salute mentale, per non parlare delle avverse condizioni climatiche che catalizzano sempre qualche incidente che percorre fatale le vite di qualcuno.
 L'estate è una stagione speciale perché ha un simbolismo ambiguo. 
 Tanto è splendente, quanto nasconde una decadenza, tanto è bellissima da vivere, tanto sembra breve e inafferrabile. Mentre febbraio e gennaio hanno una lentezza suicida, luglio e agosto vengono inghiottiti da un gorgo spazio-temporale che non riusciamo a spiegarci. L'estate ospita fantasmi che si agitano in notti abitate da grilli e da calure che ci impediscono di dormire.
 Ci porta in luoghi che durante l'anno possiamo solo sognare, ci distacca dalla rassicurante routine con una violenza che ha dello sconcertante.
Se volete provare una sana inquietudine summer goth ecco a voi il mio suggerimento di fine maggio: Tony Sandoval.
Questo fumettista messicano, pubblicato in Italia da Tunuè, è assolutamente fantastico.
Non solo per i suoi disegni, bellissimi, con acquarelli davvero splendidi, ma per le storie che si dipanano sospese tra la realtà e il fantastico con accenni gotici, in grado di unire entrambi gli elementi con una semplicità che sconcerta.
 Le storie di Sandoval, anche aiutate da un tratto che si presta tantissimo all'onirico goth, raccontano quasi sempre di ragazzini o ragazzi alle prese con eventi mostruosi che non sanno bene come incanalare nella loro vita. Non sanno dare loro una spiegazione, perché, in effetti, è quasi impossibile spiegare il male. E così, invece di comportarsi come gli adulti, che si affannano in spiegazioni complicatissime, o, più spesso, fingono di non vedere, i ragazzini di Sandoval riescono a immettere nel flusso delle loro vite l'elemento mostruoso innestandolo nella loro quotidianità. 
 Non c'è bisogno di spiegare il male, il male esiste e ignorarlo non serve a nulla. Forse può servire a qualcosa combatterlo, ma non per principio, solo quando è necessario. I ragazzini di Sandoval sono diffidenti, ed egoisti, non hanno alti ideali, combattono solo se non possono farne a meno. 
Ne sono un esempio i protagonisti di "Watersnakes" e soprattutto de "Il cadavere e il sofà". 
 Entrambi sono piccoli gioielli, il primo, che descrive una complicata amicizia amorosa tra due ragazzine (di cui forse una è morta) ha un livello visivo straordinario, ma il secondo, seppur meno di livello estetico (è un lavoro precedente, ma insomma stiamo sempre parlando di disegni fantastici), ha una storia molto più forte. 
Una delle tavole più belle di "Watersnakes". Sandoval ha
alcune fissazioni nei disegni: lingue, denti e animali con
tentacoli o striscianti.
 "Il cadavere e il sofà" si innesta in quel filone che unisce l'adolescenza, la perdita dell'innocenza e un elemento horror disturbante. Un filone, se ci si pensa, fiorentissimo e fortunato. 
 Basta pensare all'immensa fortuna che conobbe la serie "Piccoli brividi" (avevo un'amica alle superiori ignorante come una capra, non leggeva niente, ma aveva tutta la collezione di "Piccoli brividi"), a quello splendido film che è "Stand by me", a "Il mio vicino Totoro" o "E.T.".
 Gli adolescenti sono in una fase in cui percepiscono il loro corpo come particolarmente "mostruoso". Non c'è un'altra stagione della vita in cui assistiamo, con consapevolezza, ad un'esplosione fisica così rilevante e incontrollabile. Mutiamo di giorno in giorno e una stagione può fare la differenza tra un bambino e un ragazzo.
 Non è un caso se una delle leggende in materia di fantasmi, vuole che le case in cui abitano degli adolescenti, siano particolarmente magnetiche per gli spiriti. Entrambi, adolescenti e non morti, sono su una linea di confine spaventosa su cui non hanno nessun controllo.
 Sandoval è riuscito a fermare l'inquietudine incerta di quella stagione in questo libro davvero considerevole. Ne "Il cadavere e il sofà", Polo, un ragazzino, annuncia nella prima pagina, che quella è davvero una strana estate, poichè, Christian, un suo coetaneo del paese, è sparito misteriosamente una settimana prima. Che fine abbia fatto lo scopre poco dopo: è morto e il suo cadavere, che gli adulti non sono riusciti a trovare, giace non lontano dal paese.
 Invece di condividere questa scoperta, lascia il cadavere al suo posto, tornando ad osservarlo nei giorni successivi, perplesso sulla possibilità che effettivamente la morte esista (concetto alquanto inafferrabile a tredici anni). In paese, nel frattempo, è arrivata una ragazzina, Sophia, figlia di un professore, che non si mostra a nessuno se non a lui e indossa solo vestiti neri e lenti a contatto che la fanno sembrare una vampira. Polo si innamora per la prima volta nella sua vita ed è a lei che decide di mostrare il cadavere, convinto che saprà capire quella sensazione stupita e paradossalmente viva, che ha lui quando lo guarda.
 Sophia non lo delude e tra di loro inizia una storia d'amore molto dolce, onirica eppure incredibilmente sensuale, fisica. Attorno, un mondo di adulti che sembra alieno e distante, sogni mostruosi, il timore che Sophia non sia mai esistita e la verità sulla morte di Cristian che si svela a loro senza che la cerchino, semplice e terribile.
 Meno potente (secondo me eh), ma molto particolare è anche "Nocturno", opera in cui i protagonisti di Sandoval sono leggermente più adulti.
Un gruppo di ragazzi che appartengono al mondo della musica metal. Il protagonista è Seck, talentuosissimo cantante e musicista, inafferrabile e strano al punto da cercare l'erba per il the da solo, nelle aiuole e nei campi.
da "Nocturno"
 In città c'è un concorso tra band e si agitano attorno a loro, concorrenti malfamati, una bellissima giornalista bionda e fantasmi dai crani lucidi a cui nessuno sa dare un nome. C'è un omicidio, poi un altro, e un regolamento di conti e un volo in un fiume.
 Poi la storia diventa mitica, appartiene ad altri mondi e promette ritorni, perché nel mondo fantastico di Sandoval, la morte non è sempre definitiva, talvolta ci è concesso di tornare, ma non di recuperare gli anni ormai perduti.
 Fidatevi, se volete provare il vero gotico estivo e diventarne psuedodipendenti come me, Sandoval è la via (e il prezzo degli albi vale assolutamente la pena).

Ps. Ci tengo a sottolineare che ho scritto questo post, con sette imbecilli dietro la mia sedia in biblioteca, che hanno preso codesto ameno luogo per il ricettacolo dei loro sghignazzi deficienti.
 Sò vecchia inside, ma ci sta un parco gigantesco fuori dove andarsi a rotolare senza rompere le palle e le ovaie al prossimo, perciò ci vedo della malvagità peggiore di quella dei poveri fantasmi.
 E scusate lo sfogo.

mercoledì 27 maggio 2015

Piccole recensioni tra amici! Mostriciattoli e tragedie, civiltà fumettara anche in Italia, effetto Casimir, estetica gaya e telefonate che segnano una vita, per tre recensioni gustose!

E dopo aver iniziato per almeno dieci volte diverse nel corso di queste settimane, un nuovo "Piccole recensioni tra amici", ecco che finalmente riesco a produrne uno come Cristo comanda.
Un'immagine calzante della mia ubriachezza da letture
 In questi ultimi tempi sto leggendo in modo particolarmente disordinato e bulimico tutto quello che trovo, mi capita, mi interessa, passa il convento, col risultato che ho seicento letture aperte e leggo in qualsiasi modo e momento (notte compresa, in esilio sul divano che la dolce metà non riesce a dormire con la luce del comodino accesa).
 E' tutto molto bello, ma attendo l'estate per darmi una regolata, altrimenti sono come una al bancone del bar che non riesce a far salire la gradazione alcolica in modo civile e finisce sbronza un po' di tutto. Che bella immagine eh? 
 Scusate per la condivisione di questo momento delirante. Per il momento sto cercando libri gotici (veri) in cui cadere come ogni inizio estate. A ognuno i suoi riti da lettore.
 Bando alle ciance! A voi le recensioni!

"UNA TRACCIA DEL MIO AMORE" di Douglas Martin ed. Indiana:
 Il cantante degli ormai defunti Rem, Michael Stipe è gay ed è ormai un fatto risaputo. 
Quello che è meno risaputo, e che francamente anche io ignoravo prima di imbattermi in questo racconto, è che per qualche anno ha avuto una storia d'amore con un giovane studente proveniente da una di quelle classiche famiglie americane che detonano nella completa tristezza: padre che se ne va, madre che si risposa col patrigno sbagliato, sorella che frequenta solo persone che non piacciono alla madre, omosessualità dell'unico figlio maschio mai accettata.
 In questo quadretto post moderno americano su cui forse una popolazione che vive nell'indifferenza l'emarginazione di tanti concittadini dovrebbe forse interrogarsi,Douglas Martin racconta la sua storia d'amore con Michael Stipe, il cui nome non viene mai pronunciato.
 Giovane, squattrinato, affamato e confuso, Douglas sa che Stipe frequenta alcuni locali gay della città dove studia ed è lì che si presenta apposta per avvicinarlo. Non sa bene neanche lui cosa cerchi, se l'attenzione di un uomo più grande che inizia ad essere famoso, una sorta di autocompiacimento per la seduzione di un qualcuno di importante, l'amore, il sesso o qualcos'altro.
 Nel dubbio va e conquista. La relazione tra i due si rivela in realtà terribilmente semplice: passeranno insieme qualche anno e Douglas seguirà Stipe in alcune tournée, passando sempre per un assistente e mai presentato ufficialmente come il suo compagno. La sensazione che, nonostante le molte attenzioni di Stipe, presentato come un artista eccentrico e perfezionista al limite del maniacale, la relazione sia condannata a finire sin dal giorno in cui è iniziata, conferisce alla narrazione un tono precario e vagamente drammatico che ben gli si addice.
 Ciò che gli si addice meno, sono le frequenti omissioni dell'autore, il sorvolare per amore di privacy su alcuni eventi, soprattutto due lutti a cui si accenna in modo confuso, che rendono la storia meno profonda e struggente di quanto avrebbe potuto essere. C'era molto materiale, una buona scrittura, ma un grande spreco nel non detto.
 Si sottolinea la forte presenza di estetica gaya maschile di cui un giorno parlerò diffusamente. Nel frattempo, per capire a cosa mi riferisco, guardatevi un pezzo di "A single man" di Tom Ford, probabilmente uno dei film in cui l'estetica degli uomini gay si sublima particolarmente.
 Due stellette e mezzo. Tre se vi interessano i due temi principali: omosessualità e/o musica.

"IN INVERNO LE MIE MANI SAPEVANO DI MANDARINO" di Sergio Gerasi ed. Bao Publishing:
 Non ho particolare passione per le graphic novel dai disegni un po' disturbanti e le storie ermetiche. Probabilmente sono ancora ancorata ad una visione della graphic novel che deve avere al massimo una delle due cose: o i disegni disturbanti o la storia ermetica, se no mi parte il fastidio (sò limitata lo so). 
Ma c'è sempre un eccezione, come "In inverno le mie mani sapevano di mandarino" che ha disegni bellissimi, ma capocce sproporzionate rispetto al corpo e quelle facce pseudocaricaturali mi inquietavano un filino mentre la storia, misteriosa e assai densa scorre apparentemente senza un senso pagina per pagina.
 Un uomo con una misteriosa cerniera in testa vaga per Milano in preda a ricordi confusi e vuoti di memoria. 
 Di tanto in tanto vede coloratissimi mostriciattoli che si distaccano molesti dal suo mondo in bianco e nero, scomparendo dalla sua vista solo quando prende delle medicine.
   Tra le nebbie dei suoi ricordi infantili e di una città incredibilmente grigia (nessuna città come Milano penso possa assumere tante e tali tonalità di grigio al mondo), va in farmacia, si ferma in un parco, incontra un anziano che lo porta sulla sua barca e va a trovare sua nonna in ospedale, una nonna dolcissima che come lui ha perso tanti ricordi, a causa di una malattia chiamata Alzheimer. 
 Su tutto aleggia qualcosa di irrisolto che si svela in tutta la sua reale crudezza nel finale
 Una storia che scorre placida e lenta, come il quasi immoto naviglio milanese, viene investita da un colpo di scena finale che lascia senza parole. Tanto la vicenda è onirica, quanto  il senso di colpa per una tragedia di cui il protagonista non aveva colpe, ma della quale era impossibile non sentirsi colpevoli, ci viene sbattuto in faccia nella sua terribile realtà. Basta non rispondere ad una telefonata, per determinare una vita.
 Tre stelline e mezzo, per essere una graphic novel che, come poche, riesce a comunicare quella colpevole tristezza che certi eventi irrimediabili rischiano di lasciarci per sempre.

"EFFETTO CASIMIR" della NUKE ed. Rizzoli Lizard:
Il collettivo Mammaaiuto è una fucina di ggggiovani talenti italiani davvero considerevoli e Claudia Razzoli aka la Nuke, che si è ivi fatta le ossa è una di queste. 
 Finalmente anche in Italia è arrivata la civiltà fumettistica, quella che pian piano sta smettendo di considerare i fumetti pane per bambini o per un misterioso mondo underground dalle caratteristiche non ben identificate (grande eccezione la Bonelli, il cui fenomeno "Tex" andrebbe studiato seriamente, visto che anche in questo momento sono in biblioteca circondata da uomini di ogni età che leggono voracemente giga-albi dell'uomo più western d'Italia). 
"Effetto Casimir" ed. Rizzoli Lizard, (la parte fumettara della Rizzoli che cerca di star dietro alla favolosa e meravigliosa iperattività della Bao), è un'opera molto generazionale. 
 Non tanto perché parla di una generazione specifica, quanto perché inquadra perfettamente ciò che accade in numerosi trentenni alla soglia della maturità: avere dei sogni e delle aspirazioni fuori dal comune, come diventare musicisti, va bene fino ad una certa età, passata quella, perseverare nell'intento diventa un filino più difficile e non tutti reggono la pressione.
 Come diceva il buon De Andrè, "Fino a vent'anni siamo tutti poeti. Dopo quell'età solo i poeti veri o gli stupidi".
 Siccome siamo una generazione che vede spostarsi la soglia della maturità sempre più in avanti, possiamo dire anche che "Fino a trent'anni siamo tutti poeti", ma possiamo anche affermare che su migliaia di aspiranti poeti, ci sono migliaia di stupidi e un solo poeta vero.  Ecco, quel poeta non è certo Giacomo che rimane sconcertato dalla fine della sua storia d'amore con Valeria dopo quindici lunghi anni. In un mondo fatto di precariato sentimentale e lavorativo, cosa accade ad un individuo portato all'instabilità quando gli viene tolta l'unica cosa stabile della sua vita?
 Cade nel delirio totale ovviamente. Un delirio fatto di dramma dell'abbandono, settimane chiuso in casa, rimpianti, tentativi di uscirne che finiscono clamorosamente a vuoto.
 "Effetto Casimir" parla di quell'esatto momento in cui dobbiamo decidere cosa fare col nostro destino. Se siamo abbastanza forti da sfidare tutto per provare a farcela (ed eventualmente fallire con tutto ciò che ne consegue) o scoprire la nostra vera natura di hobbit attaccati ad una tranquillità rassicurante che sopraggiunge come una disgrazia all'avvento della nostra vita adulta (cosa che accade con molta semplicità nel 95% dei casi).
 Cosa farà il buon Giacomo? 
 Tre stellette e mezzo pienissime. 

E voi? Ne avete letto qualcuno? Vi incuriosisce qualcuno di questi titoli?

martedì 26 maggio 2015

L'ipocrisia e la verità nella letteratura. La lettura stranamente e casualmente comparata di "Rosa shocking" di Adam Levin e "Ballo di famiglia" di David Leavitt tra furbizia e manicheismo spinto.

In questi giorni vacanzieri, per caso, ho letto ben due libri di racconti.
La versione Lp non è così sbagliata
 Ci sono opinioni discordanti sulle raccolte di racconti, a molti non piacciono perché ritengono che storie troppo brevi siano uno spreco rispetto a romanzi ben più lunghi e appassionanti, altri pensano che siano come un Lp: magari due o tre tracce sono buone, ma per il resto devi sciropparti improbabili sperimentazioni, improbabili collaborazioni, improbabili noie riempitivo.
 Io non ho un'opinione specifica, in generale leggo poche raccolte di racconti tempo per puro caso o per la pigrizia di andarmeli a cercare.
 Al Salone del Libro di Torino però ho trovato una raccolta nuova nuova "Rosa shocking" di Adam Levin (sì, quasi omonimo del cantante bonazzo dei Maroon 5) ed. Clichy.
 Sul retro della copertina c'era il solito consiglio prosaico (di un altro osannato scrittore di racconti, Saunders), ma anche una nota molto frizz frizz di Franzen (aka, ho scoperto, l'autore più preso in giro del mondo):
"Rosa shocking mi ricorda il mio primo incontro con i cereali Froot Loops. Eccessivo e ferocemente colorato, è una lettura vivificante, calorica, l'equivalente letterario di una "botta di zuccheri".
 Ho iniziato a leggerlo e ho trovato immediatamente i racconti assai notevoli.
 Come scrissi in occasione della recensione sulla raccolta di Miranda July "Tu più di chiunque altro", per un certo periodo della mia vita, aiutata da Raitre, da Enrico Ghezzi e dall'ancora fiorente videonoleggio del mio paese, ero diventata una grande appassionata di film indipendenti, quelli che vincono il Sundance o il Tribeca a base di segretarie con problemi col sadomaso e ragazzini che preferiscono credere agli alieni piuttosto che ad abusi infantili ("Secretary" e "Mysterious skin", tratto peraltro da un libro). 
 Questi racconti sono sulla stessa identica lunghezza d'onda: estremamente pop, molto originali, con inizi semplici che degenerano pian piano in una follia surreale, una sorta di crescendo pirandelliano in cui una cosa buttata lì casualmente diventa enorme e ingestibile e con conseguenze sovente deliranti (il top, la storia dell'origami cigno messo sulla sedia sbagliata che causa due morti).
 Ci sono storie più prevedibili come l'uomo che finisce per essere ossessionato da una sorta di crepa nel muro di casa che la notte produce gel (posso comprendere appieno il delirio paranoico di quest'uomo che non si sente sicuro in casa sua da quando vivo in questa stramaledetta città dove ogni estate gli scarafaggi mi entrano in casa dal cortile rendendomi la vita un inferno). 
 E ci sono storie più originali, come quella d'inizio, in cui, in un futuro imprecisato, un uomo cerca di costruire una sorta di Barbie su cui le ragazzine con problemi alimentari possano sublimare il loro disturbo, guarendo o l'unica storia a tematica lesbica. In essa una ragazza che ha perso le gambe in un incidente che nel corso delle pagine nasconde un motivo e una causa sempre diversi, si innamora giovanissima di una sua compagna d'università (ovviamente, che sto a dirlo a fare, finisce male). Altre, infine, sono evidenti esperimenti letterari.
 Ripeto, tutto molto piacevole ed estremamente notevole e francamente, in questa estate in coming (se mai le nubi piovose ci lasceranno che non se ne può più), vi farà passare delle piacevoli ore sotto l'ombrellone o sotto un pino in montagna.
Però. C'era qualcosa che, nonostante tutto, non mi tornava. Franzen ci aveva preso in pieno: grande botta di zuccheri, ma poi? Cos'era quel vago retrogusto che mi ero ritrovata in bocca alla fine? Probabilmente non lo avrei capito se non mi fosse capitato di leggere quasi in contemporanea "Ballo di famiglia" di David Leavitt.
 Erano molti colpevoli anni che volevo leggere qualcos'altro di Leavitt dopo il bellissimo "La lingua perduta delle gru" e una pioggia torrenziale in pieno maggio a Trastevere mi ha costretto ad entrare in una deliziosa libreria, la Open Door Bookshop.
 In mezzo alla selva di libri usati, principalmente in lingua straniera (fateci un salto che è una figata) c'era anche qualcosa per i solo italiano-ablanti come me, così alla modica cifra di 2,50 euro, ecco saltare fuori, appunto "Ballo di famiglia".
 Nel problematico viaggio di ritorno in treno, funestato da anziani in gita per l'Expo, l'ho divorato come non mi accadeva da tempo.
Foto by me. Trovo la copertina di rara bruttezza
 E' una breve, ma densissima raccolta di racconti che mostrano un momento tanto banale quanto esatto di una piccola catastrofe borghese. La protagonista indiscussa è infatti "la famiglia" , fonte di storie tanto banale, quanto fondamentale, che si disgrega e mostra tutte le sue pieghe più dolorose e le sue più grandi ipocrisie a causa di un evento scatenante che travolge, dopo anni di calma piatta, ogni cosa.
 Lo stile è pulitissimo, non ci sono particolari artefizi letterari, si tratta del minimalismo americano allo stato puro che piace a molti (a me, lo confesso, generalmente no). Eppure l'impatto di questi bozzetti era assai più potente delle storie elaborate e ricche di sorprese stilistiche e narrative di Adam Levin. Il motivo mi è apparso lampante e ho capito anche cosa non mi tornava nel pur apprezzabilissimo "Rosa shocking".
 Io ho un enorme problema con l'ipocrisia. Non lo dico vantandomi idiotamente (non immaginatemi come la cretina che al colloquio di lavoro dice che il suo più grande difetto è "essere perfezionista"), l'ipocrisia ha molte accezioni, anche buone: per dire, aiuta anche la civile convivenza tra gli esseri umani. 
 Ad esempio se io penso che una persona sia completamente deficiente, difficilmente riesco ad esimermi dal dirlo. Se mi annoio a morte a teatro con la mia dolce metà, non riesco a fingere e a farne mistero, come non so mentire su quanto trovi orrendo un regalo, cretina una posizione politica, ingiusta un'imposizione. Se tutti facessero come me, temo che il mondo sarebbe un posto orribile.
 Questo mio serio problema mi impedisce di apprezzare le idiozie borghesi, il manierismo, la facilità con cui tanti si adattano a ciò che è più semplice (anche se è ciò che effettivamente molti desiderano), la facciata che rende tutto più bello, ma anche terribilmente falso. I racconti di Leavitt fanno proprio questo, smascherano l'ipocrisia mostrando la verità che si nasconde dietro alle situazioni più semplici.
 Si parla spesso del fatto che la buona letteratura debba contenere una grande dose di verità. Ma cosa intendiamo quando si dice questo? Cos'è questa verità?
Chiariamo. Almeno secondo me non è il verismo, non è l'enunciazione dogmatica di ciò che è giusto o sbagliato, la verità nella letteratura ci svela il mondo nudo, gli esseri umani per quello che sono, nel bene, ma anche nel male, cosa per cui ci vuole assai più coraggio e di cui abbiamo un gran bisogno nella nostra società ormai così ipocritamente manichea. 
 I racconti di Leavitt parlano dei terrori di una madre che ha il cancro, ma anche del suo odio per il marito che l'ha piantata per una studentessa più giovane, i suoi timori per il figlio più piccolo, che ama tantissimo, ma non esita a definire timido e bugiardo.  

 Esemplare è il primo racconto in cui la rispettabilissima madre di famiglia che fa del suo unico figlio la sua principale ragione di vita diventando presidentessa di tutte le associazioni per i genitori, seguendo il suo percorso scolastico, diventando persino un'attivista quando suo figlio rivela di essere gay.
  Eppure questa facciata perfetta  ha una crepa gigantesca che si espande quando il figlio gli presenta il suo compagno: lei è la madre dell'anno, l'attivista che protegge suo figlio eppure non riesce a vederli neanche prendersi per mano. Ed è in quel momento che si rivela per quel che è, e Leavitt non ha neanche bisogno di dircelo: quella madre forse ama suo figlio, ma non si è mai davvero impegnata per lui, lo ha fatto sempre per se stessa, per mostrare agli altri una sorta di perfezione materna da cui trarre riconoscimento sociale.
 Sono tutte pennellate così: la ragazza che disprezza sua madre non accorgendosi del troppo clamoroso affetto per suo padre, la perfetta famiglia che si ostina a fare insieme le vacanze estive nonostante il divorzio del padre e collassa sotto la catastrofe materna.
  Non succede niente, ma noi possiamo vedere tutto, molto più di quello che c'è. Non è solo una famiglia che si disgrega, è la fine di un'illusione, la debolezza umana, l'ipocrisia di cui ci nutriamo, la rispettabilità di cui molti non possono fare a meno, il desiderio che gli altri non ci considerino inferiori o emarginati.
 Questo negli elaborati racconti di Levin non c'è. Davanti a quelli di Leavitt i suoi racconti rivelano un'ipocrisia assai diffusa in un certo modo di scrivere: molti talentuosi scrittori contemporanei, pensano che basti lo shock, la variazione sul tema surreale, la contorsione linguistica, la grande novità stilistica, per essere considerati delle grandi nuovi voci. Nascondo dietro una splendida forma, la mancanza di altro.
In un certo qual modo, (ma immagino che Levin avrà tempo per dimostrarci altro), usano il loro talento solo in superficie (chiariamo grandiosa superficie), senza andare più a fondo.
 I racconti di Levin non ci raccontano nessuna verità, ci mostrano un ottimo scrittore che però non è in grado di svelarci nulla, di smascherare niente, di mostrarci colpevoli di fronte a qualcosa che stiamo leggendo,
 Perché è questo che fanno le storie buone, ci parlano della verità che non sappiamo vedere perché non vogliamo.

sabato 23 maggio 2015

Avviso ai naviganti! Vacanze primaverili.

Scusate il ritardo
dell'informazione
Post di servizio/avviso ai e alle naviganti.
 Come sa chi segue la pagina fb, sono in vacanza per qualche giorno. Lunedì si torna alla normalitè. Buone giornate di primavera anche tra i monsoni che spazzano il North.
 Nel frattempo ho già finito "Raffles" di E. W. Hornung ed è very faigo (la vicinanza con la mia sorella young adult mi fa male, lo so).

mercoledì 20 maggio 2015

Il resoconto fumettoso della mia visita al salone del libro di Torino 2015! Tra interviste radio, diluvi, piazzisti, guaglione, gesti anni '90 e morali interminabili!

Allora, con estremissima fatica tecnica (sono a casa dei miei e se vi racconto cosa ho dovuto fare con lo scanner, il computer, la ciabatta che non funzionava, le mie sorelle, il fidanzato di mia sorella, la scheda wireless e via dicendo, non finiamo più), sono riuscita a caricare il fumetto del Salone del Libro di Torino 2015.
 Ci sono stata venerdì scorso e mi sono abbastanza divertita. Non ho partecipato a incontri poichè, quando vado un giorno solo, preferisco concentrarmi su stand, libri e altri visitatori.
Ringrazio ancora Greta Pieropan e Radio Jeans per l'intervista (di cui metterò il link appena l'avrò) e insomma, bando alle ciance, buona lettura!
"Il salone del libro di Torino 2015" tutto per voi!














domenica 17 maggio 2015

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Aquile".

Ed ecco la seconda vignetta del fine settimana.
 Certe volte in libreria si assiste a siparietti davvero surreali, come la vignetta di cui sotto e come l'anziano di oggi che, commosso dalla mia gentilezza, alla fine mi ha messo in guardia. "Signorina lei è troppo gentile! Si protegga! Si protegga!". Chissà.
Ah, nei prossimi giorni sarò qualche giorno in vacanza, ma troverò il tempo di fare qualche recensione che mi pende in giro da troppo tempo (oltre al fumetto sul Salone del Libro).
Intanto, cose realmente avvenute! Lo giuro! "Aquile".


sabato 16 maggio 2015

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Finché la barca va".

Ed ecco la prima vignetta del fine settimana!
 Sono reduce da una visita al Salone del Libro di Torino di ieri e dovrei fumettare degnamente il mio viaggio, ma in questi giorni sono presa da un vortice di casini. In compenso lunedì mi sciropperò un bel po' di treno e potrò produrre. Abbiate fede, ho moooooooooooooooooooooolto da raccontare (ho pure fatto la mia prima intervista ad una radio, Radio Jeans, che qui ri-ringrazio e di cui posterò il link appena me la manderanno, per chi fosse interessat*).
 Intanto godetevi l'ennesima rivisitazioni di titoli da parte dei clienti.
Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Finché la barca va"!


martedì 12 maggio 2015

La matematica come rivolta. La vita struggente di un formidabile genio:"Evariste Galois" di Leopold Infeld, tra rivoluzione, matematica, brindisi minacciosi al re e quella frase terribile, "Non ho tempo".

Come ogni tanto rimembro, qualche anno fa, lavorai per un anno in una biblioteca.
  In quell'occasione, nonostante il contratto iperprecario, venni mandata a fare un corso di aggiornamento sul mitico Sebina, storico programma di catalogazione nazionale.
 Ero piena di belle speranze, perchè si trattava di un corso per bibliotecari professionisti, ma quando vi giunsi, scoprii che era una tre giorni di apprendimento a dir poco base. Dopo venti minuti già dormivo sul banco.
Fortunatamente avevo a disposizione un pc con una connessione, così, iniziai a vagare nell'etere e, non so come, capitai sulla pagina di wikipedia dedicata a Evariste Galois.
 Scoprii che nella Francia post napoleonica, durante gli ultimi colpi di una monarchia ormai avviata verso la scomparsa, era vissuto un matematico che morì a neanche 21 anni durante un duello d'onore.
 Codesto matematico aveva una storia alquanto peculiare. Ben lungi dallo starsene chiuso in casa a produrre formule, era un ferventissimo repubblicano, dall'animo a dir poco indomito e il carattere assai strano. Produsse poco a livello di quantità, ma ebbe intuizioni talmente fondamentali e concentrate, che, sui suoi lavori, venne fondata una branca dell'algebra astratta. 
La storia mi colpì tantissimo. Era a dir poco romanzesca e mi stupì che nessuno ne avesse mai tratto un film. Scartabellando, scoprii invece che, in effetti, negli anni '70, aveva visto la luce un curioso lungometraggio sperimentale di italica produzione che si intitolava: "Non ho tempo" e il regista era Ansano Giannarelli.
 Giannarelli, morto qualche anno fa, era stato mio professore all'università ed era all'epoca ancora il presidente dell'Archivio Audiovisivo del movimento operaio. Gli scrissi chiedendogli dove potessi trovare una copia del suo film e lui, assai gentilmente, me ne preparò una copia apposta da andare a recuperare all'archivio.
Ansano Giannarelli
 A casa, esaltatissima, organizzai una miniproiezione con alcuni miei amici che non comprendevano il mio improvviso entusiasmo verso un oscuro matematico francese e che, dopo la visione, continuarono a non comprenderlo.
 "Non ho tempo" infatti era un film probabilmente troppo cinefilo per le nostre povere menti, intriso di sperimentazioni di regia assai anni '70, con un attore che aveva almeno il doppio degli anni del povero Galois e un sotto testo politico che soverchiava la biografia.
 Scrissi a Giannarelli che mi era molto piaciuto, ma dovetti fare un po' la figura della bimbominkia ante litteram, quando sottolineai che immaginavo Galois assai diverso: ossia più giovane, eroico e possibilmente piacente (in questo senso giocava il fatto che l'attore crudelmente scelto era di rara bruttezza).
 Non mi rispose e mi rammarico tuttora per non essermi spiegata meglio.
 Ciò che intendevo dire è ben spiegato in "Evariste Galois" di Leopold Infeld, fisico prestato alla scrittura che rimase folgorato dall'esistenza di Galois negli anni '60 e ne studiò le gesta dando alle stampe quest'opera, che descrive, in modo un po' romanzesco, la vita in verità assai romanzesca di questo ragazzo.
 Nato in una famiglia benestante e "politicamente impegnata" (suo padre era storico sindaco del suo paese, suicida in tarda età a causa delle calunnie della chiesa locale nei suoi confronti), Galois venne mandato a studiare in collegio a Parigi. Tale luogo era ovviamente intriso di severità e di quella tipica magniloquenza burocratica di cui si ammantano tutti i posti e le persone che si credono grandi quando sono solo pretenziosi.
Il libro, che non si occupa dell'infanzia di Galois (sul quale le fonti storiche sono comunque pochissime), prende le mosse da un grande sommovimento di un gruppo di studenti contro i cosiddetti "gesuiti", modo in cui chiamavano gli istitutori più conservatori.
 Si trattava più o meno di un tentativo di okkupazione che però, all'epoca, aveva conseguenze ben più gravi: i sobillatori vennero infatti scoperti ed espulsi.
 Galois rimase semplice spettatore, pur avvertendo interiormente i primi moti di violenta ribellione che l'avrebbero scosso nella sua breve vita. Convinto perciò, di aver saltato un grande appuntamento con la storia (da giovani sembra tutto irreparabile), piuttosto abbattuto, decide sedicenne, di iscriversi ad un corso di matematica del collegio, materia all'epoca non considerata fondamentale.
 In brevissimo tempo diventa più bravo dei suoi professori, trovando in uno di essi un mentore in grado di spingerlo a spedire i suoi lavori ai grandi accademici dell'epoca, che per ben due volte persero le sue, a quanto pare, assai oscure dissertazioni.
 Passano due anni, Galois tenta l'ammissione al Politecnico, fallendola per due volte di fila: risponde male ai professori e trova assolutamente cretino dover spiegare delle cose che sono ovvie solo perché è così che si fa. Riesce ad essere ammesso ad una scuola meno importante, la Normale, dove continua i suoi studi matematici e accentua la sua fervente attività rivoluzionaria.
 Sono gli anni in cui una rivoluzione popolare tira giù con grande facilità dal trono, il re Carlo X, che va in esilio abdicando in favore di un nuovo ramo degli Orleans, nella figura di Luigi Filippo. Questo nuovo re si attira l'odio dei rivoluzionari che speravano nell'avvento della repubblica e non di un gioco di mano dinastico.
 Galois è tra questi. Inizia a frequentare gli ambienti rivoluzionari fino ad un episodio surreale che lo condurrà ad uno spettacolare processo: durante una sorta di riunione privata in un'osteria, in preda ad un alto tasso alcolico generale, egli brindò al re "Luigi Filippo" con un coltello in mano. A quanto brindare alla salute di qualcuno con un pugnale in mano equivaleva a minacciarlo esplicitamente di morte e così il buon Galois venne buttato in prigione.
 Se la cavò grazie ad un famoso avvocato ingaggiato dai suoi amici, ma ciò non gli impedì di finire di nuovo in galera dopo breve tempo per aver girato in uniforme e armato. In questo caso, minore il reato, ma anche minore la risonanza, perciò paradossalmente finì in prigione quasi un anno, durante il quale comunque si diede da fare: tentarono di ucciderlo a tradimento e assistette ad una rivolta dei detenuti.
 Se non altro ebbe il tempo di elaborare in un senso vagamente più compiuto una sua teoria sulla risolvibilità delle equazioni (che non enuncerò visto che non ne capisco nulla) che andava a completare il lavoro di un altro famoso e sfortunato matematico dell'epoca: il bel norvegese Abel, morto ad appena 27 anni.
Uscito di prigione, la sua vita non durò molto. Poco dopo venne coinvolto in un duello per difendere l'onore di una donna misteriosa dove fu ferito a morte. La faccenda, assai losca, viene da alcuni ritenuta un sordido piano delle spie monarchiche per liberarsi di questo esuberante giovine che morì due giorni dopo tra le braccia del fratello minore Alfred, in ospedale. Era il 31 maggio del 1932.
 La storia, ha un tocco finale che sembra uscito da un film. 
 La notte prima del duello, nel quale Galois era assolutamente convinto di morire, il matematico lavorò per 13 ore filate riempiendo fogli su fogli di teorie e formule, il più delle quali assai nebulose per chi ne decriptò successivamente il lavoro.
 Ai margini dei fogli scritti di corsa, egli scriveva infatti "Non ho tempo".
 Il libro di Infeld soffre un po' dei decenni trascorsi e soprattutto nella parte finale, quella "romantica" in un eccessivo tono enfatico, tuttavia c'è da ricordare che lo scrittore era un fisico che è riuscito a scrivere un libro su un matematico, accessibile a tutti.
   Inoltre, questa biografia, assai partecipata, scritta da un autore che prova una sincera ammirazione per il Galois matematico e ragazzo (Infeld probabilmente si riconosceva nell'irriverenza contro il potere di Galois in quanto fisico contrario alle armi nucleari e attivista per la pace), consente di cogliere in pieno quello che cercai malamente di dire a Giannarelli anni fa.
 Non volevo che l'attore che impersonava Galois fosse un giovane attore belloccio per il mio diletto, ma perché la giovinezza nella storia di questo ragazzo è un'asse portante quanto la matematica. E' evidente, come in poche biografie, quanto l'ansia di fare, le emozioni viscerali, i desideri ciechi e accecanti, l'anelito rivoluzionario possano essere potenti durante la primissima giovinezza.
 Galois, che aveva probabilmente un carattere assai estremo per sua natura, non trovò modo di mitigare questi suoi estremismi con gli anni che non gli furono concessi, ma grazie a questa mancanza di tentennamenti, grazie a questa sua ansia di combattere ogni ordine precostituito (dal re, all'accademia fino al mondo accademico matematico verso cui ebbe parole di fuoco in una sua lunga prefazione che scrisse in prigione) visse in modo ardente una vita brevissima.
 Una biografia che è come un romanzo di formazione portato alle sue estreme conseguenze, senza climax, senza presa di coscienza, senza compromessi, in cui l'algebra diventa un curioso e inedito mezzo per una rivolta interiore.
 In un'epoca in cui si è passati da un prete che asseriva "che l'obbedienza non è una virtù" ad uno stato di obbedienza generale a dir poco inquietante, leggere le gesta di Galois potrebbe ricordarci che dubitare sempre, di tutto, (ma con intelligenza, con uno spirito critico proprio, non seguendo masse pecorone) è un dovere. 

lunedì 11 maggio 2015

Cose realmente avvenute! Me l'hanno giurato! "Solo una sana e consapevole libidine salva il giovane dallo stress e dall'azione cattolica".

Ed ecco la seconda vignetta della giornata!
 Si tratta di un cose realmente avvenute, me l'hanno giurato!
 La sventurata protagonista lavora in una fumetteria ove si è appena tenuta una due giorni di intensi incontri/festeggiamenti per una sorta di festa del fumetto. Ha pensato benissimo di fare un resoconto delle sue sventure sulla pagina fb di codesto blog e questa era una delle perle migliori.
Chi coglierà le fattezze del cliente avrà mille stelle di premio. Peraltro mi è venuto stranamente somigliante.
Cose realmente avvenute! Me l'hanno giurato! "Sono una sana e consapevole libidine salva il giovane dallo stress e dall'azione cattolica".


Cose realmente avvenute! Lo giuro! "La nandina".

 Ed ecco almeno una delle vignette del fine settimana passato (la seconda la posto stasera prometto). 
 Qui vi appare quell'amabile cliente che scambia il libraio per un'enciclopedia vivente e la libreria per una wikipedia semovente, dove basta interrogare chi vi lavora per avere tutte le risposte. Ovviamente, nel momento in cui la risposta non arriva (è un po' difficile essere versati in tutte le materie esistenti) l'indignazione per la tua incapacità è lì pronta per essere scodellata.
 Ma come li assumono 'sti librai? Non fanno loro un test di ammissione al dottorato in Onniscienza?ù Cose realmente avvenute! Lo giuro! "La nandina".



sabato 9 maggio 2015

Ogni tanto si chiude una porta e si spera si apra almeno il famoso portone. Intanto un fumetto per dire "Addio al mio responsabile" (no, non è morto).

Il fumetto di oggi è un po' particolare poichè narra di un tristo (per me) fatto: ho cambiato il mio responsabile.
 Ogni tanto ve lo vignettavo, probabilmente la sua performance vignettistica migliore rimane il Grund Eckhartiano e troppe sue perle sono andate perdute negli innumerevoli foglietti di appunti che mi faccio a lavoro e poi dissemino per casa per la disperazione della mia dolce metà che pensa di essere in balia di Pollicino.
 Ma vabbeh, oh come si suol dire "Si chiude una porta, si apre un portone". Ma addio, mio responsabile, mi mancherai :'(
 Un fumetto di nostalgica tregenda "Addio al mio responsabile".



giovedì 7 maggio 2015

Avere vent'anni per sempre. La talentuosa e sfortunata Marina Keegan e il suo "Il contrario della solitudine", tra lettori onniscienti, speranze, i migliori anni della nostra vita ed enormi meduse luminose che danzano davanti a noi, come un'illusione.

 Quando compii esattamente vent'anni, mi sentii un filino turbata. 
 Pensavo, sinceramente, di dover sentire qualcosa di particolare al raggiungimento esatto di un'età dagli ormai mitici contorni: se era così perdutamente compianto, non farlo avrebbe significato perdere la possibilità che, a quanto sembrava stavo avendo, di viverla, anche se non capivo esattamente quale fosse.
 Così, pur non sentendo nulla di particolarmente diverso, avvertii quasi il dovere di dover sfruttare ogni singolo attimo di quel periodo.
 Dopotutto erano gli anni migliori della mia vita, no?
  Perciò mi diedi molto da fare, spendendo grosse energie in ogni dove, eppure, qualsiasi cosa facessi, io questo attimo fatale non riuscivo proprio a vederlo.
 Per contro, iniziai ad avere dei momenti di perplessità vacante, avvertivo infatti la percezione assai forte di essere un filino meno lucida di quando frequentavo le superiori.
 Intendiamoci, per lucidità non intendo dire che stavo perdendo i colpi, ma, semplicemente ciò che avevo sperato e desiderato con estrema chiarezza al liceo, iniziava a perdere lentamente i contorni. 
 Forse non era davvero tutto raggiungibile, forse il mondo era davvero fatto in modo da schiacciarti, forse tutti quei cinquantenni che sospiravano  quando parlavo di qualcosa che mi sarebbe piaciuto fare o diventare, che ne so, diventare, banalissimamente, una scrittrice, vivere in Francia, diventare la direttrice della biblioteca nazionale, (condivido la mitomania delle mie aspettative), era una roba che già solo dirla ti qualificava come una mentecatta sognatrice che non capiva niente della vita. 
 Il mantra era: sopravvivenza, se non ce l'hanno fatta gli altri perchè dovresti farcela tu, l'imprescindibile "emigra all'estero", la vita vera è un'altra cosa e altre nobili affermazioni sullo stesso tono.
 Ciò che davvero mi shockò (da quel punto di vista sono sempre stata un po' lenta) fu l'improvviso divario tra ciò che ti era concesso credere e volere prima del diploma e ciò che invece ti era permesso dopo. In pochi mesi della tua vita, dopo anni di meticoloso indottrinamento da parte di adulti che volevano solo che tirassi fuori la parte migliore di te, dopo averti domandato dalle elementari "Cosa farai da grande?", averti preteso interessato alle più alte cause civili e artistiche, ecco che, nell'arco di una sola estate ti veniva detto: guarda, è tutto molto bello, ora però la storia è un'altra. 
 Mi sentii da una parte truffata e da una parte grandemente irritata e, devo dirlo, non sono mai riuscita completamente ad adeguarmi a "la storia ora è un'altra" conservando un effetto straniante generale che mi impedisce di prendere sul serio troppe odierne stronzate.
 Comunque, per puro caso, visto che a furia di mettere donne coi capelli rossi in copertina, qualcuna alla fine ti sfugge, ho letto una decina di giorni fa un articolo su Marina Keegan, giovane promessa della letteratura statunitense, allieva di Harold Bloom, morta a 22 anni in un incidente stradale esattamente cinque giorni dopo della laurea. Alle stampe era stato dato un collage di suoi racconti, alcuni esercizi letterari dell'università, e articoli che pubblicava per il giornale del college ad Harvard, talmente brillanti da averle fruttato non so quanto mille migliaia di mila condivisioni e uno stae al New Yorker che non ha mai fatto in tempo ad iniziare. Titolo: "Il contrario della solitudine".
 Ora, generalmente io diffido sempre di: giovani talenti anglosassoni che sfornano imperdibili raccolte di racconti (le quali raramente si rivelano davvero imperdibili) e scrittori vittime di una qualche tragedia. Penso sempre che l'industria editoriale mi stia fregando battendo il tasto ovvio del caso umano.
 Eppure l'idea che una ragazza di 22 anni con tutta tutta tutta la vita davanti fosse morta così improvvisamente lasciando in sospeso una tale quantità di cose così fantasticamente avviate (tra cui un'opera teatrale di successo), mi tarlava il cervello.
 Non so, il mio sesto senso mi suggeriva con forza che forse, Marina Keegan, non era solo un tragico caso spinto dai media, ma nascondesse davvero qualcosa di prezioso. Ho cercato alcuni suoi articoli su internet e ho scoperto che era anche appassionata di politica e non aveva mancato di scrivere un veemente articolo dal titolo "Non fidarsi è meglio" in cui rimproverava ai suoi coetanei di farsi sedurre con un po' troppa facilità alle sirene della finanza abbandonando i propri sogni precocemente, senza neanche provare a lottare.
 E mi ci sono subito riconosciuta, perché anche io conservo con doverosa stupefacenza il ricordo di quelle ragazze che al secondo anno di università già gallineggiavano dicendo che "Ok, laurea, poi ci si sposa e fine così", oppure ragazzi che ammettevano "Sì mi piace quello che studio, ma tanto se mi va male lavoro con mio padre". 
 Farmacisti con figli stranamente con la vocazione di massa per la farmacia, avvocati con figli che sperano solo di fare avvocati e notai, medici con eredi magicamente attratti solo dall'amato Esculapio e via dicendo. Intendiamoci, nulla di male a seguire le orme familiari, ma quello che la Keegan aveva evinto con numerose interviste era che lo scarto tra il desiderato e ciò che si finiva a fare, si doveva nella maggior parte dei casi, ad una straordinaria voglia di non lottare. Era la strada più facile e meno spaventosa, strada in cui si perdevano migliaia e migliaia di talenti che non avrebbero mai reso davvero migliore il mondo perchè troppo impegnati a far fare soldi a qualcun'altro.
 L'articolo aveva una carica d'energia e di sdegno coinvolgente. Marina scriveva di cose sempre esistite, ma lo faceva con una tale convinzione, con così poco manierismo, che sembrava di leggerle per la prima volta. Mi sono innamorata di lei. Era da un tempo infinito che non leggevo una ventenne che scriveva ciò che ci si aspetterebbe da una ventenne.
 Ho preso perciò il suo libro e ho scoperto che Marina Keegan parla spessissimo del sentimento che si prova quando finisce qualcosa. Si potrebbe dire che è il filo conduttore di tutte le sue storie, diversissime tra loro. Tutti i personaggi sono in bilico cercando di elaborare il conflitto tra una vita che sta finendo e una che sta, spesso contro il loro volere, per iniziare. Talvolta è il doversi fare forza quando, alla morte del tuo fidanzato, scopri che è sempre rimasto innamorato della ex e non sai come accettarlo, né come ricordarlo. Altre volte è rimanere intrappolati per vent'anni nel ricordo del primo amore, idealizzato e irraggiungibile al punto da non far spazio neanche a quello per un figlio
 Nel racconto, secondo me, migliore del libro, "La fossa delle Marianne", un gruppo di ricercatori rimane intrappolato nei fondali di questo inaccessibile luogo, dentro un sottomarino che diventerà anche la loro tomba. Tutti sono terrorizzati, ma, in qualche modo, sentono di doversi preparare a morire. Solo una di loro non può accettarlo in nessuno modo: è Helen, che vuole disperatamente vivere per rivedere l'amore della sua vita e che sarà proprio colei che pagherà il prezzo più alto.
 Nei racconti della Keegan chi non si arrende, non può ricominciare, e questo senso di possibilità, che la percorre e che cita esplicitamente nell'articolo "Il contrario della solitudine" è ciò che intendo quando dico che è una ventenne che scrive come una ventenne. 
 Ha idealismo, speranza, forza, ha ancora quella lucidità che vedo morire in me di anno in anno, la capacità di vedere le cose per quelle che sono, non contaminate dalla stanchezza o dall'amarezza, dalle delusioni o dalla tristezza. Il tutto meravigliosamente incanalato in una potenza nella scrittura che è agghiacciante pensare non vedrà mai un'evoluzione.
 In un certo senso la sua prematura scomparsa rende questo libro ancora, purtroppo, più bello. Generalmente lo scrittore è onnisciente e il lettore no, non lo è né lo sarà mai completamente. In questo caso c'è la curiosa e terribile sensazione che, per una volta, siano i lettori ad essere per sempre più onniscienti dello scrittore.
 Quando Marina Keegan ci racconta del ragazzo innamorato della sua ex morto improvvisamente, il pensiero del lettore corre a lei e lei non potrà mai sapere di questa sfumatura impercettibile, quando scrive nei suoi articoli  "un giorno i miei figli penseranno o vedranno", noi sappiamo che quei figli non esisteranno mai, che il futuro che lei immaginava è scomparso per sempre.
 Ne "La fossa delle Marianne" gli scienziati intrappolati sott'acqua, per pochi secondi, pensano di aver iniziato una prodigiosa risalita: qualcosa splende, perlescente, oltre i vetri del sottomarino.  Ma è solo un'illusione, sono splendide meduse luminose, accorse in massa a formare una sfera di luce.
 Questo unico libro suscita la stessa illusione di tanto in tanto. Accade quando dimentichi che Marina Keegan è scomparsa e non vedi proprio l'ora di leggere di nuovo qualcosa di suo. Poi ricordi.
 Che peccato.

 "La cosa che più mi spaventa non è trovare il lavoro, la città o il compagno giusto, ma l'idea di perdere questa rete che ci circonda. Questo sfuggente, indefinibile contrario della solitudine, la sensazione che provo in questo momento. 
Ma chiariamo una cosa: gli anni migliori della nostra vita non sono dietro di noi. Fanno parte di noi, e sono destinati a ripetersi quando cresceremo, quando ci trasferiremo a New York e ce ne andremo da New York, quando desidereremo vivere o non vivere a New York. A trent'anni vorrò dare delle feste. Vorrò divertirmi quando sarò vecchia. La nozione stessa dei MIGLIORI anni si basa su formule stereotipate del tipo "avrei dovuto...", "avrei voluto...", " se solo avessi...". 
Certo, ci sono cose che vorremmo aver fatto: le nostre letture, quel ragazzo in mensa, Siamo i critici più severi di noi stessi e ci vuol poco a deluderci. Basta dormire troppo. Procrastinare. Prendere scorciatoie. Più di una volta ho pensato a me stessa al liceo e mi sono detta: come facevo? Come riuscivo a impegnarmi tanto? Le nostre insicurezze private ci seguono e ci seguiranno sempre . Il fatto è che siamo tutti così. Nessuna si sveglia quando vorrebbe. Nessuno ha fatto tutte le letture assegnate. Abbiamo questi standard irraggiungibili e probabilmente non saremo mai all'altezza della versione perfetta di noi stessi che fantastichiamo per il futuro.
 Ma non ci vedo niente di male"

mercoledì 6 maggio 2015

"Anime baltiche", una recensione a base di saune, streghe, rivoluzioni bolsceviche, conflitti sociali irrisolti, paesaggi lunari e tragiche morti in diretta tv. Un libro per affacciarsi su un mondo.

 Qualche anno fa, mi capitò di leggere un articolo su una sorta di fenomeno carsico considerato assai magico nella lontana Estonia.
Si trattava del Pozzo della Strega, una specie di fontanamento di acqua sotterranea che le leggende vogliono frutto di una sauna estemporanea di alcune streghe che si ritrovano sottoterra (sì sauna). 
 Correlato a questo simpatico articolo di folklore c'era un dato per me completamene inaspettato: l'Estonia risultava essere uno dei paesi più atei d'Europacol 75% della popolazione che dichiarava di non aderire a nessuna confessione (e quelli che aderivano si dichiaravano adepti, tra gli altri, di una sorta di culto precristiano, il (o la) Taraa).
 Questo dato, almeno per me, stupefacente, si può dire con cognizione di causa che fosse quasi l'unica cosa di cui ero a conoscenza sulle Repubbliche Baltiche. Il resto erano vaghe informazioni sul fatto che erano repubbliche ex-sovietiche e si erano staccate dalla Russia negli anni '90.
 Anche per questa mia indegna ignoranza ho accettato il consiglio di molti miei colleghi di leggere "Anime Baltiche" di Jan Brokken ed. Iperborea, per quanto, come fumettai l'anno scorso, chiedere consiglio da libraio a libraio è sempre una questione spinosa, irta di pericoli e di insidie.
 "Anime baltiche" mi era stato perciò consigliato in modo festante, come un libro indimenticabile. Diciamo che SI -con riserva. Ossia, io lo consiglierei e lo consiglio perché è un libro davvero ben fatto, ma c'è una cosa di fondo che mi ha disturbato.
 Ma andiamo con ordine.
 I PRO (numerosi):
 Come premesso, la mia colpevole ignoranza nei confronti della storia del baltico era un vuoto che andava almeno iniziato a colmare. Ampliare gli orizzonti e conoscere le storie e soprattutto la storia a noi vicine, è ampiamente consigliabile. In questo senso codesto libro riesce nel suo intento.
Foto by me
 La struttura infatti è quella di un diario di viaggio dell'autore a far da cornice ad una serie di piccole biografie di artisti, politici e personaggi di fama mondiale accomunati dal fatto di essere originari delle tre repubbliche.
 C'è lo scrittore Roman Gary, nato Kacew, unico figlio di un padre (che Gary preferì dimenticare) che abbandonò la famiglia quando era bambino e di una donna che fece qualsiasi cosa per garantirne la sopravvivenza.
 Paventando il dramma nazista si trasferì con lui da Vilnius in Francia, sempre sognandogli, nonostante la miseria, un futuro principesco da ambasciatore.
  Non sapevo né dell'assurda sorte scrittoria che gli toccò (il suo libro di maggior successo uscì a nome del nipote per permettergli di partecipare ad un premio, negandogli la gloria) né che fosse una sorta di bugiardo patologico per quel che riguardava la propria biografia, abbellita e infiocchettata con aneddoti falsi ad hoc.
 C'è la tragica storia di Loreta Asanaviciute, l'unica donna, giovanissima e in procinto di sposarsi, tra i 14 civili uccisi durante la difesa della torre della televisione in Lituania dai russi, nel periodo della proclamazione dell'indipendenza delle tre repubbliche a inizio anni '90. La sua morte venne ripresa letteralmente in diretta durante il ricovero disperato in ospedale, quando i medici cercarono di salvarle la vita dopo che una gamba le era finita sotto un cingolato russo.
 Tutta la nazione la sentì dire "Potrò ancora ballare alle mie nozze?" per poi vederla spirare. Un evento che sarebbe devastante e di incredibile impatto emotivo nel nostro mondo iperconnesso, figurarsi nella Lituania del 1991. 
Ho scoperto grazie a questo libro che dopo anni di soprusi, l'indipendenza baltica venne rivendicata nel modo più pacifico possibile con manifestazioni che hanno dell'incredibile, come "La via baltica" quando si formò una catena umana lunga 600 km lungo i confini delle tre repubbliche quale rivendicazione di indipendenza dall'Urss.
 E poi ancora, io assai ignorante in musica, mi sono appassionata alla vita crepuscolare del compositore estone Arto Part, costretto a rifugiarsi in Germania ovest dopo il debutto un po' troppo colmo di doppi sensi politici (stile "Va pensiero" di Verdi, ma rivolto ai russi) di un canto teoricamente religioso. Sono venuta a conoscenza della voglia di rivalsa, quasi ingestibile, dell'artista Rothko, nato in Lettonia, e dell'incapacità di amare di Ejzenstein che rincorse per tutta la vita l'affetto di una madre che lo abbandonò fino a pochi mesi prima della sua morte.
 Senza contare che il libro nasconde la straordinaria capacità di rievocare paesaggi quasi lunari, il buio precoce del nord-Europa, la sterminata campagna silenziosa, le fiorenti capitali prima del nazismo e dell'occupazione sovietica. In genere le descrizioni sono proprio ciò che mi fa detestare la narrativa di viaggio, ma in questo caso sono brevi, non stancanti, usano pochi aggettivi perfettamente evocativi senza dilungarsi su albe, tramonti, pensieri edificanti su paesaggi maestosi o palazzi intarsiati. Pochi accenni forti ed essenziali, adatti a queste terre non barocche.

CONTRO:
 Non so esattamente chi sia Brokken, di certo è olandese. Questa sua olandesità è incredibilmente citata in ogni dove e raggiunge il suo acme nella lunghissima issima issima biografia di un personaggio molto noto in Olanda e assolutamente sconosciuto a noi: Lotti  Von Wrangler, se ho ben capito storica direttrice di una sorta di "Rakam". La sua biografia oltre che decisamente noiosa è anche quella in cui viene fuori il più grosso difetto di questo libro: una lettura della storia poco imparziale e per questo contraddittoria in più punti.
 In una sorta di rivolgimento storico, dopo la proclamazione dell'indipendenza ora sono i russi che  vivono lì da decenni ad essere discriminati e, da quanto si evince, ad avere diritti civili limitati.
Brokken parla molto dell'attuale irrisolto scontro sociale tra i cittadini delle repubblica originari del luogo e i numerosissimi russi che negli anni dell'occupazione si trasferirono a scopo colonizzazione formando una specie di élite, impedendo ai locali di studiare la propria storia e addirittura di parlare la propria lingua.
 Ma Brokken parla anche molto della presenza ebraica nelle tre repubbliche che, prima del nazismo, pare fosse elevatissima. Poi, tra pogrom, deportazioni, distruzioni sistematiche di sinagoghe e conseguenti migrazioni volontarie all'estero o in Palestina, ormai il tasso di ebrei presenti è diventato irrisorio. Soprattutto nelle prime biografie questo dato ebraico è fortissimo.
 Poi ad un certo punto Brokken sembra essersi trovato in difficoltà perché non sapeva decidersi se fondamentalmente erano più cattivi i nazisti o i sovietici. Il risultato è stato che: quando si trattava di ebrei i nazisti erano il male maggiore, ma quando non si trattava di ebrei, ma di sovietici, allora i nazisti erano meno cattivi e lo erano di più i russi.
Nella biografia della direttrice estone-olandese tale lettura della storia a proprio uso e consumo viene fuori in tutta la sua grandezza: Lotti era ricca e nobile in Estonia fino alla rivoluzione bolscevica. A causa anche della conseguente migrazione forzata, i fratelli rimangono fortemente attratti dal nazismo, nonostante l'opposizione del padre. Alla fine Claus, il fratello più amato, si arruola volontario e combatte per molto tempo tra le fila naziste mandando numerose lettere, alcune riportate, in cui non sembra vivere in conflitto con fatto che i nazisti deportavano o pogromavano ebrei.
 L'autore ci dice quindi che tale era l'odio per i sovietici che Claus aveva preferito arruolarsi coi nazisti.
 I conti però non tornano: o i nazisti sono quelli che hanno ammazzato come un cane il padre di Roman Gary o sono i giovani arrabbiati che volevano solo vendicarsi dell'occupazione sovietica. O sono entrambi e allora non si tratta la storia come un romanzo d'appendice, ma col distacco che le è dovuto e permette di non contraddirsi in un'improbabile hit parade della malvagità in cui non esistono sfumature o responsabilità. 

Morale di questa lunga favola: consiglierei questo libro? Yes, ma tenendo ben presente che è una solo la prima finestra per un mondo gigantesco.

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