mercoledì 11 febbraio 2015

Un confuso post su quell'arcano concetto che è: l'indipendentòs kai agathòs. Indipendente (libreria e casa editrice) è per forza anche buono? Oppure la concezione manichea della vita non è applicabile manco in questo campo? Ditemelo voi.

 Due settimane fa disgraziatamente non lavoravo di domenica.
 Dico disgraziatamente perché, se non fosse che altrimenti non vedrei mai civilmente la mia dolce metà che fa un orario da ufficio di epoca fordista, a me lavorare la domenica (pazzi a parte) piace perché mi libera da quella schiavitù ben raccontata da Venditti in "Buona Domenica".
 Ossia, quell'ansia da inizio settimana mista a svogliatezza che ti assale in un pomeriggio che ti senti in dovere di impegnare in ogni modo. Ma vabbeh, comunque, nel tentativo di impegnare codesto pomeriggio, mi sono trascinata in una camminata infinita per arrivare ad una libreria indipendente tanto decantata e parecchio lontana dalla mia amata abitazione.
 Si narravano leggende maravigliose su codesto posto così ho pensato che ne valesse indubbiamente la pena. Invece, dopo quasi due ore di cammino, entro in questo posto e scopro di essere precipitata in una sorta di iperspazio hipster figheggiante.
 La struttura era carina, il bar delizioso, peccato per il catalogo in vendita sospeso tra il pretenzioso, l'insipido, l'inutile e lo scelto male.
 A prescindere dal gusto personale dei librai che magari poteva non coincidere col mio (magari dal blog do un'altra impressione, ma non credo di essere l'arbiter elegantiae della selezione libraria), il problema era decisamente un altro. Era una libreria palesemente allestita in modo diciamo "politico".
 Erano:
1) Quasi completamente assenti libri di grandi case editrici nella sezione di narrativa.
2) Presenti ampi spazi di case editrici indipendenti che non si capiva se fossero state pescate dal mucchio con un criterio logico o no (alcune erano palesemente cooool tipo la Minimum Fax, ma di altre non si capiva bene).
Se si parla di stalinismo librario non posso non mettere
un significativo manifesto maoista
3) Ok, vuoi tenere le piccole e medie case editrici, seppure con criteri misteriosi, perché tanto quelle grandi le tengono tutti e vuoi differenziarti, però....la scelta  del catalogo era inquietante. Un mix di titoli che non avevano nessun appeal tra vecchiaggine, palese noia e nessun criterio che apparisse logico neanche in questo caso (classici mischiati con romanzi di scarso interesse con chicche letterarie che prese singolarmente comunicavano assai poco, magari in un percorso ragionato sarebbe stato un filino diverso).
 In due ore lì dentro sono riuscita a trovare 3 e dico 3 titoli vagamente interessanti e ci ho messo del serio impegno.
 La saggistica mi è parsa scelta discretamente a caso e il top è stata la parte sulle graphic novel. Aveva uno spazio ampio, non si capiva se per motivi di amore da parte del libraio o perché fosse cooool (era coooool anche la clientela, tutta gggggiovane e benvestita, io boh, mi trascinavo a leggere in libreria in nessun particolare stato estetico quando studiavo), ma riusciva nello straordinario intento di avere poco e niente.
 Escludendo Zerocalcare, che pur pubblicato dalla Bao fa tendenza ed è uno di noi, c'erano case editrici scelte in modo randomico, con particolare attenzione per i collettivi indipendenti. Cosa fichissima e giustissima (molti li avevo visti al BilBolBul), ma perché? Cioè perché quasi solo quelli? Se si cercava di ravvisare un senso logico nella composizione del catalogo era impossibile comprendere cosa passasse per la mente dei librai.
 Idem per la parte dei bambini. Esistono tanti libri bellissimi che erano riusciti accuratamente ad evitare proponendo una scelta estetica molto simile a quella delle graphic novel: i disegni e le storie privilegiate erano quelle un po' underground o con disegni molto particolari o con messaggi non proprio da bambini (per capire cosa intendo per libri da bambini non da bambini leggete "Confesso che ho desiderato" Kite edizioni), discretamente inquietanti.
 Sono uscita da lì con un grande interrogativo: ma ha senso tenere una libreria con un catalogo palesemente "politico"? Cioè ha senso allestire una libreria non secondo un gusto personale, un occhio al commercio (perché ripeto, il commercio dei libri è sempre commercio) e un tentativo di fare una proposta sensata al cliente/lettore?
Se non avete fatto il classico goooglate kalòs kai agathòs!
 Perché se ci fosse stato un gusto personale allora i librai avrebbero dovuto spiegare come fosse razionalmente possibile non amare manco un libro edito da Einaudi o Rizzoli, che va bene la malvagità delle grande case editrici ecc, ma escono tante belle cose anche da lì. 
 Noto che molti bookblogger e molte querelle delle case editrici indipendenti nascono da un assunto che non trovo completamente giusto: "indipendente=buono", un indipendentòs kai agathòs.
 Come se non fosse possibile che le case editrici indipendenti, pur avendo un'eccezionale cura (ormai perduta da quelle grandi) nella grafica, nel formato, talvolta persino nella carta, possano prendere delle cantonate maestose, produrre cose discutibili, tradurre robe che si sarebbe stato meglio lasciare solo in lingua originale.
 Idem, non ha senso, a mio parere, e lo dico da lettrice che compra anche e spesso nelle librerie indipendenti (e che come scritto nel post sulle migliori librerie della mia vita riconosce che una libreria indipendente con un libraio capace e appassionato del suo lavoro in modo serio è un tesoro per la vita), pensare che una libreria indipendente sia per forza migliore di una di catena o per forza migliore in generale. 
 La libreria di quella domenica pomeriggio era francamente orrenda, con un catalogo assurdo. E mi ha ricordato un'altra libreria, sempre gestita in modo "politicamente figo" da proprietari giovani assai maleducati con la clientela e più impegnati a trafficare con gli amici che con i clienti (ovviamente secondari, e ve lo dico in questo caso da una che sta dall'altra parte della barricata) in cui ho cercato di andare qualche volta prima di rinunciare, presa dall'irritazione totale.
 Cosa voglio dire con questo post?
1) Una libreria progettata per essere pheeeeega per me non ha nessun senso. Non lo ha perché attuare una politica del genere alla cultura è controproducente sia per il commercio e secondo me offensivo per il lettore che non ha bisogno di essere guidato come un bambino verso "il bene".
2) Molti lettori che danno addosso alle catene e dicono di sostenere le indipendenti poi comprano la qualunque su Amazon.
 Dal mio punto di vista è inutile dire che il panorama culturale si appiattisce, i centri storici stanno diventando tutti uguali, ormai in centro c'è solo Prada e una volta qui era tutta campagna, se poi non si usa il proprio potere (di clienti e quindi di soldo) per fare qualcosa.
 Cioè se frignate per la libreria tanto graziosa del centro che chiude e poi sventagliate il buono regalo di Amazon allora sò lacrime di coccodrillo.
3) Come avevo scritto in un post tempo fa, abbandoniamo l'equazione orwelliana: libraio indipendente buono-libraio di catena cattivo. Anche io vorrei da morire una libreria mia, piccolo particolare: non c'ho i soldi. Non c'ho manco una casa da impegnare, non ho nessuna garanzia, non ho niente. Ma amo i libri. Che devo fà? L'unico modo è lavorare per altri. E' capitata, per ragioni numeriche di assunzione ovviamente, che fosse una catena e non un indipendente, sono meno brava o attendibile per questo? E il mio "padrone" se indipendente è per forza più bravo o migliore di me?
4) Leggere indipendente è cosa buona e giusta e caldeggiabile. E' giusto dare spazio e pubblicità alle realtà che non possono permettersi visibilità, però io lo confesso non ho MAI scelto un libro per la casa editrice. Io scelgo quello che mi piace. Quello che consiglio in questo blog è frutto di ciò che vedo a lavoro, del mio interesse, dei miei giri in altre librerie ecc. ecc. Prima viene il contenuto poi il resto. Questo perchè per me indipendentòs kai agathòs non esiste. Esiste il gusto personale.

Spero si sia capito il senso di questo confuso post.
Non si offenda nessuno, ma parliamone, secondo me è un argomento fondamentale. Talvolta sembra ci siano dei tabù: i libri si vendono per fare (anche) soldi, l'editoria serve (anche) a fare soldi (per questo ad esempio trovo assurde le incitazioni a non vendere i libri di Fabio Volo o della Newton in nome della cultura, saranno discutibili, ma vendono e pagano affitto e stipendi). Montroni aveva scritto un libro con un titolo esemplificativo: "Vendere l'anima". E' quel che si fa e non è vergogna, per nessuno.

 Voi che ne pensate? Sempre che riusciate a capire cosa volevo dire -.-

7 commenti:

  1. Ci sono sicuramente delle case editrici che mi stanno più "simpatiche" di altre, per chi c'è dietro o magari per i formati inconfondibili o per le tematiche. Adoravo la Nord per la fantascienza, un po' meno Fanucci che fa le cose spesso a tirar via, mi piacciono troppo i libretti Sellerio e se posso evito Mondadori come la peste.
    Detto ciò i libri li compro dove e quando capita (Amazon, grandi catene, bancarelle dell'usato e supermercati inclusi) e solitamente non faccio caso all'edizione: quella che trovo prendo, nuovo o usato mi è indifferente. Se sono in una città che non conosco e vedo una libreria che mi attira io entro e ci passo come minimo un'ora, difficilmente esco senza neanche un acquisto.
    Quando faccio spesa al super devo evitare lo scaffale dei libri scontati altrimenti rischio di prendere qualcosa, in pratica sono drogata e basta :D
    E non credo proprio che basti un po' di figaggine e qualche lustrino ad attirare il lettore vero, per quello basta anche un banchetto a bordo strada, credo che questi atteggiamenti siano un po' una moda, un atteggiarsi a lettore impegnato...tutta fuffa...

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    1. Anche atteggiamento cooool: io vado in quella libreria e quindi faccio la cosa ggggiusta. Di sicuro è un atteggiamento da città e non da paese (anche se certe cose possono succedere pure nei paesi come nel commento di cui sotto).
      Io per mia scelta non compro su Amazon niente a prescindere, ma devo dire che non mi straccio manco le vesti quando una libreria indipendente di cui ho sempre trovato discutibili le scelte, chiude.

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  2. Concordo con le tue conclusioni. Nessuno apre una libreria o qualsivoglia attività commerciale con la scritta "Fatebenefratelli", ma si fa per guadagnare, fare i soldi. Non ci sono molte scorciatoie: o crei davvero un catalogo attento alle chicche, scelte con criterio e che comprendano anche buoni libri di case editrici grandi, oppure stai certo che, dopo un periodo di curiosità, chiudi, perché non riesci nemmeno a pagarti le spese fisse.

    Anche io sono stata in una libreria indipendente ultimamente. Era decisamente orientata politicamente, tanto da organizzare reading ad hoc, inoltre c'era proprio una scelta scarna di tutto.

    Il reparto bambini è la prova del nove: lo capisci che di bambini non sanno niente e quello che offrono non è esattamente per bambini, specie per i più piccini. Ti viene il dubbio che non l'abbiano guardato, ma lo abbiano scelto a fiducia.

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    1. Ovviamente io non mi riferisco ai librai che combattono con le unghie e coi denti tutti i giorni, ma a quelli che non so perché abbiano aperto una libreria. Significativissima la libreria del mio paese: davvero fantastica, gestita bene, catalogo bellissimo durante la prima gestione, fu poi ceduta a due tipe che avevano quattro titoli in croce e pure brutti e appena entravi non facevano che lamentarsi della crisi. Prima ci andavo per premiarmi quando passavo un esame, dopo ho iniziato a premiarmi altrove.

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  3. Penso di aver capito bene il tuo punto di vista, perché fa parte di quelle prese di coscienza contro le "etichette" che si elargiscono alle persone, ai comportamenti, agli oggetti di consumo, alle scelte di svago, persino ai cibi e ai vestiti. Etichette che servono a definire l'identità altrui, ma anche propria, in modo da schematizzare, semplificare e incasellare la realtà e il giudizio su di essa. E, non da ultimo, creare la base adatta all'eterno gioco della pagliuzza e della trave nell'occhio, della coerenza e dell'ipocrisia. Negli anni Settanta tutto era o di destra o di sinistra, oggi sembra tutto global o no-global, dipendente o indipendente, ma poco cambia: se mangi da McDonald, se compri Apple o usi Windows, se preferisci l'industriale al biologico ecc., sei integrato nel sistema, complice dei suoi misfatti e probabilmente anche un ipocrita, se alla fine vuoi dimostrare un po' di coscienza politica. Oppure se ti vesti di rosa sei una checca, se guidi un modello di auto dello scorso anno sei un barbone, se preferisci la lettura di un libro alla partita sei uno sfigato, e via dicendo. Ce n'è per tutti i gusti, in ultima istanza è sempre la vittoria di un pregiudizio, del "noi contro di loro". Forse sto esagerando, gonfiando le cose oltre limiti accettabili, ma mi interessa sottolineare una forma mentis che viene da tempi immemori e continuerà ancora a lungo. Io da adolescente avevo pure questa tendenza alla schematizzazione e non nego che fosse pure più semplice affrontare la vita, senza dubbi né ripensamenti; ma mi stavo ingabbiando da solo, mi stavo autolimitando per delle sciocchezze, come se un hamburger o una maglietta definissero sul serio la mia personalità, invece delle mie azioni. E lo stesso dicasi per case editrici e librerie! Specie se vado in cerca di libri difficili da trovare e ristampati da editori che mi stanno sulle palle, o se l'unica copia che trovo è in una libreria dove non metterei piede per mille motivi. Mondadori, Feltrinelli, Ubik, supermercati, bancarelle, io compro e basta, se a qualcuno non va bene si sieda su questo *ditomedioalzato*.

    Scusa lo sfogo. :P

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  4. Premesso che se posso faccio i miei acquisti librari in libreria e, possibilmente, in un libreria di paese, non posso pensare di privarmi di determinati autori perché pubblicano con questo o quell'editore. Magari sono anche autori defunti, classici, è colpa loro se, ipotizziamo, sono in catalogo a Mondadori o a controllate Mondadori? Rinuncio a Borges o a Saramago se non mi piace Einaudi?

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