Ed ecco che per recuperare un po' di recensioni, spiattello un piccole recensioni tra amici.
In modo assolutamente involontario mi sono resa conto di aver recensito due libri che hanno la condizione femminile come diciamo contesto nel quale si muovono i racconti.
Certo, una è fiction e uno è un reportage, uno è ambientato in Cina e l'altro in Yemen, ma i punti di contatto sono comunque molti: in qualsiasi parte del mondo tu vada la condizione femminile è sempre peggiore di quella maschile.
Poiché questo non è un post sociologico e neanche storico e per un argomento del genere non basterebbe un'enciclopedia, mi limiterò piuttosto a segnalare un mio sentire, che di certo magari piacerà poco o verrà trovato senza molto senso, ma lo segnalo lo stesso.
Nel libro di Su Tong la critica al sistema è gigantesca e lancinante, nel libro della Battaglia viene liquidata con un "c'è molta strada da fare".
Ecco, mi accorgo che soprattutto per quel che riguarda determinate culture mi si chiede una sospensione del giudizio che io non sono in grado di dare e non voglio neanche dare.
Forse il caso più interessante in merito riguarda gli autori iraniani, come la Nafisi o la Satrapi, che riescono a passare il bello della loro identità, non nascondendosi dietro ad alibi o a specchietti per le allodole per quel che invece è molto evidente non può essere accettato.
E' un discorso lungo e che non mi piace fare perché so che corrisponde al camminare sulle uova e non voglio essere fraintesa, ma mi sembrava doveroso accennare in questo piccole recensioni tra amici.
Et ora let's go!
VITE DI DONNE di Su Tong ed. Einaudi:
Alle superiori, tanta era la mia fame di scrittori orientali che, esaurito il giacimento della biblioteca del mio paese, prendevo il treno per andare in quella del paese più vicino (sembra molto romantico lo so, ma alla fine della fiera, tra il treno e la camminata erano una ventina di minuti e non di più). Ancora ricordo che fu lì che trovai, tra le altre cose, "Mogli e concubine".
Conosciuto anche come "Lanterne rosse" per via del film che ne fu tratto |
Tra di loro, c'era la particolarissima scena di seduzione tra la protagonista, la quarta moglie molto giovane di un ricco commerciante, e il figlio di lui (coetaneo di lei). A lei bastò lo stargli vicino ed era raccontato con una delicatezza e al contempo una passione difficilissimi da ottenere.
"Vite di donne" è scritto col medesimo stile semplice ed essenziale, molto scorrevole e al contempo perfetto. Non servono molte parole ed eccessive descrizioni a Su Tong per precipitarci nella vita di tre generazioni di donne che, spinte da uno spirito autodistruttivo catalizzato da una società crudele, finiscono per essere tutte profondamente infelici.
Il secondo racconto di questo breve libro invece mi ha portato una curiosa associazione letteraria.
Le protagoniste sono due sorelle zitelle di una certa età (in realtà non sono così vecchie, ma a 46 anni un tempo eri decrepita) che vivono in simbiosi e chiuse in casa dalla morte dei propri genitori.
A causa di una serie di piccoli eventi legati ai litigi di tre commesse del negozio di loro proprietà, la più piccola delle due finisce per uscire di casa qualche volta e a scoprire che foooorse la vita può offrirle qualcosa di più che la convivenza forzata con la tirannica sorella.
Devo dire una delle copertine più brutte partorite dall'Einaudi |
La storia mi ha ricordato incredibilmente una delle Novelle della Pescara di D'Annunzio che lessi approfonditamente (per un motivo assurdo di cui un giorno parlerò), "La vergine Orsola".
Anche lì le protagoniste erano due sorelle sole che vivevano frugalmente chiuse in casa, ma lì, la variante era che la più piccola usciva a scoprire il mondo a seguito di una grave malattia da cui era poi riuscita a salvarsi.
Mentre la sorella minore cinese finisce poi felicemente i suoi giorni, quella abruzzese, poveraccia, non soccombe sotto il peso di drammatiche convenzioni sociali.
Tuttavia incredibile constatare l'identità dei sentimenti, delle ansie e delle pressioni sociali che queste coppie di sorelle, così geograficamente lontane tra loro, rivelano avere tra loro.
Perché ci sono poche cose su cui (quasi) tutti i popoli del mondo si sono storicamente trovati concordi: l'oppressione sistematica del genere femminile con ogni mezzo è una di queste.
LA SPOSA YEMENITA di Maria Silvia Battaglia e Giulia Cannatela ed. Becco Giallo:
Tra le novità appena arrivare aveva attirato la mia attenzione "La sposa Yemenita", una graphic novel sull'esperienza della giornalista Maria Laura Battaglia in Yemen, dove qualche anno fa si è recata a studiare arabo ed è diventata anche una corrispondente all'estero per alcuni giornali.
Credo che l'idea di partenza fosse una versione italica dei vari reportage alla Delisle come, "Pyongyang", che ha avuto anche dei graziosi epigoni, (non all'altezza, ma neanche malaccio), come "Kabul disco. Come non sono stato sequestrato in Afghanistan" di Nicolas Wild.
Dunque, malgrado l'onorevole tentativo di farci conoscere una terra praticamente ignota, come lo Yemen, che a stento sappiamo ove si situa ed è generalmente tutto quello che sappiamo (c'è per dire una sorta di guerra in corso con l'Arabia Saudita e quasi non se ne parla), i problemi del libro a mio parere sono due:
1) La disegnatrice scelta è sbagliata. Il libro è disegnato in uno stile vagamente manga, ma quello che viene conosciuto come chibi-manga, ossia personaggi sproporzionati col corpo piccolino e la testa grande e con gli occhi enormi, per ottenere un effetto cutie al massimo. Uno stile che, diciamocelo, non è proprio quello che si richiede a un reportage che affronta un certo tipo di argomenti.
Certo anche Delisle usa un tratto che forse è più vignettistico che da reportage, ma qui veniamo al secondo problema.
2) Nel caso di Delisle, Wild e anche dell'ultimo libro di Boulet (lo Zerocalcare francese), "Appunti di vita 2", in cui il fumettista parla anche degli strani viaggi in giro per il mondo per tenere conferenze e presentare il libro (Africa profonda e Cina per dire), ecco in questi casi gli autori non sono giornalisti, ma fumettisti che, per motivi svariati, si trovano in posti del mondo molto particolari.
Sono lì generalmente per lavoro, un lavoro che nulla ha a che fare col giornalismo o con le mediazioni interculturali, (Delisle a Pyongyang è lì per lavorare a una serie animata, idem, per quanto strano, Wild in Afghanistan) e ciò che vedono è frutto di uno straniante effetto da pesce fuor d'acqua.
Codesta cosa determina un punto di vista rispettoso del luogo, ma che mette in luce le contraddizioni profonde di posti che sono anni luce lontani da noi e che hanno tanti pregi, ma anche tanti difetti che non ha senso negare, altrimenti per non fare gli occidentalocentrici si finisce nel problema opposto "la teoria del buon selvaggio" che è peggio ancora.
Codesta cosa determina un punto di vista rispettoso del luogo, ma che mette in luce le contraddizioni profonde di posti che sono anni luce lontani da noi e che hanno tanti pregi, ma anche tanti difetti che non ha senso negare, altrimenti per non fare gli occidentalocentrici si finisce nel problema opposto "la teoria del buon selvaggio" che è peggio ancora.
Ecco, il libro della Battaglia soffre di un eccesso di delicatezza. Si vede che è una persona molto attenta, profondamente rispettosa delle altre culture e appunto, grazie a dio, competente.
Delisle e gli altri sono attenti e rispettosi, ma non sono competenti e questo rende possibile al lettore un'identificazione molto più semplice: quello che non capiscono loro, anche a noi è di difficile comprensione.
La Battaglia invece ci presenta come tranquillamente assimilabile cose che dal nostro punto di vista sono terribili o perlomeno molto strane.
Una su tutte, il rimprovero a un giornalista americano, rapito e poi ucciso, di aver girato in modo tale da rendersi troppo esteticamente visibile coi rasta e un orecchino, entrambe cose che lo rendevano agli occhi dei locali ridicolo e sicuramente gay.
E' ovvio che il rimprovero è sensato: se sei un giornalista devi essere competente e sapere cosa puoi e non puoi fare e quali conseguenze potrebbe avere, ma a me lettore mi devi spiegare PERCHE' non va bene, cioè non dubito che abbiano dei problemi con l'omosessualità in Yemen (e mi pare già eccessivo farmi passare la cosa in cavalleria), ma non ho idea del perché non piacciano neanche i rasta. Cos'hanno che non va?
Oppure, l'episodio che dà lo stesso titolo al libro: le usanze matrimoniali in Yemen.
Per tre giorni queste donne, solitamente intabarrate nei vari niqab o altri abiti preposti dalla religione, festeggiano come delle pazze in locali dove si scatenano vestite in modo lussuoso e sgargiante e ne approfittano cercando marito contattando papabili suocere (non so se sia così effettivamente questo è quello che evinco dalla graphic).
Dal mio punto di vista è una cosa terribile, che mi rimanda all'antica Grecia e al modello ateniese quando le donne per far capire agli uomini che erano interessate dovevano sperare in qualche funerale che permettesse loro di uscire e lanciare segnali visivi.
Sono certa che c'è di più, ma cosa c'è?
So che una graphic non può rispondere a tutte le mie domande, ma deve almeno seminarle, non darmi per buona una cosa che evidentemente ai miei occhi non può esserlo (e "E' un'altra cultura" è un jolly che non vale sempre).
L'ho trovato, mi spiace dirlo perché ho capito il buonissimo intento dietro (farci conoscere una cultura lontana, misteriosa e al contempo affascinante e ricca di storia), eccessivamente semplicistico nel suo tentativo di essere divulgativo.
Forse e dico forse, disegni più realistici e adatti al contesto avrebbero potuto arginare il problema.
Visto che è una graphic, quindi il disegno dovrebbe essere parte integrante della storia e non mero supporto, anche in considerazione del fatto che l'autrice è una giornalista e non una del mestiere, forse sarebbe stato meglio affidarsi a un altro genere di disegnatore.
Il tratto pseudomanga in effetti è molto respingente :(
RispondiEliminaUn fumetto strepitoso sullo Yemen e sulla condizione femminile in particolare è "La voiture d'Intisar", di Pedro Riera e Nacho Casanova per Delcourt. Non so se ne esista una traduzione italiana, ma per chi parla il francese è imperdibile.
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