martedì 26 maggio 2015

L'ipocrisia e la verità nella letteratura. La lettura stranamente e casualmente comparata di "Rosa shocking" di Adam Levin e "Ballo di famiglia" di David Leavitt tra furbizia e manicheismo spinto.

In questi giorni vacanzieri, per caso, ho letto ben due libri di racconti.
La versione Lp non è così sbagliata
 Ci sono opinioni discordanti sulle raccolte di racconti, a molti non piacciono perché ritengono che storie troppo brevi siano uno spreco rispetto a romanzi ben più lunghi e appassionanti, altri pensano che siano come un Lp: magari due o tre tracce sono buone, ma per il resto devi sciropparti improbabili sperimentazioni, improbabili collaborazioni, improbabili noie riempitivo.
 Io non ho un'opinione specifica, in generale leggo poche raccolte di racconti tempo per puro caso o per la pigrizia di andarmeli a cercare.
 Al Salone del Libro di Torino però ho trovato una raccolta nuova nuova "Rosa shocking" di Adam Levin (sì, quasi omonimo del cantante bonazzo dei Maroon 5) ed. Clichy.
 Sul retro della copertina c'era il solito consiglio prosaico (di un altro osannato scrittore di racconti, Saunders), ma anche una nota molto frizz frizz di Franzen (aka, ho scoperto, l'autore più preso in giro del mondo):
"Rosa shocking mi ricorda il mio primo incontro con i cereali Froot Loops. Eccessivo e ferocemente colorato, è una lettura vivificante, calorica, l'equivalente letterario di una "botta di zuccheri".
 Ho iniziato a leggerlo e ho trovato immediatamente i racconti assai notevoli.
 Come scrissi in occasione della recensione sulla raccolta di Miranda July "Tu più di chiunque altro", per un certo periodo della mia vita, aiutata da Raitre, da Enrico Ghezzi e dall'ancora fiorente videonoleggio del mio paese, ero diventata una grande appassionata di film indipendenti, quelli che vincono il Sundance o il Tribeca a base di segretarie con problemi col sadomaso e ragazzini che preferiscono credere agli alieni piuttosto che ad abusi infantili ("Secretary" e "Mysterious skin", tratto peraltro da un libro). 
 Questi racconti sono sulla stessa identica lunghezza d'onda: estremamente pop, molto originali, con inizi semplici che degenerano pian piano in una follia surreale, una sorta di crescendo pirandelliano in cui una cosa buttata lì casualmente diventa enorme e ingestibile e con conseguenze sovente deliranti (il top, la storia dell'origami cigno messo sulla sedia sbagliata che causa due morti).
 Ci sono storie più prevedibili come l'uomo che finisce per essere ossessionato da una sorta di crepa nel muro di casa che la notte produce gel (posso comprendere appieno il delirio paranoico di quest'uomo che non si sente sicuro in casa sua da quando vivo in questa stramaledetta città dove ogni estate gli scarafaggi mi entrano in casa dal cortile rendendomi la vita un inferno). 
 E ci sono storie più originali, come quella d'inizio, in cui, in un futuro imprecisato, un uomo cerca di costruire una sorta di Barbie su cui le ragazzine con problemi alimentari possano sublimare il loro disturbo, guarendo o l'unica storia a tematica lesbica. In essa una ragazza che ha perso le gambe in un incidente che nel corso delle pagine nasconde un motivo e una causa sempre diversi, si innamora giovanissima di una sua compagna d'università (ovviamente, che sto a dirlo a fare, finisce male). Altre, infine, sono evidenti esperimenti letterari.
 Ripeto, tutto molto piacevole ed estremamente notevole e francamente, in questa estate in coming (se mai le nubi piovose ci lasceranno che non se ne può più), vi farà passare delle piacevoli ore sotto l'ombrellone o sotto un pino in montagna.
Però. C'era qualcosa che, nonostante tutto, non mi tornava. Franzen ci aveva preso in pieno: grande botta di zuccheri, ma poi? Cos'era quel vago retrogusto che mi ero ritrovata in bocca alla fine? Probabilmente non lo avrei capito se non mi fosse capitato di leggere quasi in contemporanea "Ballo di famiglia" di David Leavitt.
 Erano molti colpevoli anni che volevo leggere qualcos'altro di Leavitt dopo il bellissimo "La lingua perduta delle gru" e una pioggia torrenziale in pieno maggio a Trastevere mi ha costretto ad entrare in una deliziosa libreria, la Open Door Bookshop.
 In mezzo alla selva di libri usati, principalmente in lingua straniera (fateci un salto che è una figata) c'era anche qualcosa per i solo italiano-ablanti come me, così alla modica cifra di 2,50 euro, ecco saltare fuori, appunto "Ballo di famiglia".
 Nel problematico viaggio di ritorno in treno, funestato da anziani in gita per l'Expo, l'ho divorato come non mi accadeva da tempo.
Foto by me. Trovo la copertina di rara bruttezza
 E' una breve, ma densissima raccolta di racconti che mostrano un momento tanto banale quanto esatto di una piccola catastrofe borghese. La protagonista indiscussa è infatti "la famiglia" , fonte di storie tanto banale, quanto fondamentale, che si disgrega e mostra tutte le sue pieghe più dolorose e le sue più grandi ipocrisie a causa di un evento scatenante che travolge, dopo anni di calma piatta, ogni cosa.
 Lo stile è pulitissimo, non ci sono particolari artefizi letterari, si tratta del minimalismo americano allo stato puro che piace a molti (a me, lo confesso, generalmente no). Eppure l'impatto di questi bozzetti era assai più potente delle storie elaborate e ricche di sorprese stilistiche e narrative di Adam Levin. Il motivo mi è apparso lampante e ho capito anche cosa non mi tornava nel pur apprezzabilissimo "Rosa shocking".
 Io ho un enorme problema con l'ipocrisia. Non lo dico vantandomi idiotamente (non immaginatemi come la cretina che al colloquio di lavoro dice che il suo più grande difetto è "essere perfezionista"), l'ipocrisia ha molte accezioni, anche buone: per dire, aiuta anche la civile convivenza tra gli esseri umani. 
 Ad esempio se io penso che una persona sia completamente deficiente, difficilmente riesco ad esimermi dal dirlo. Se mi annoio a morte a teatro con la mia dolce metà, non riesco a fingere e a farne mistero, come non so mentire su quanto trovi orrendo un regalo, cretina una posizione politica, ingiusta un'imposizione. Se tutti facessero come me, temo che il mondo sarebbe un posto orribile.
 Questo mio serio problema mi impedisce di apprezzare le idiozie borghesi, il manierismo, la facilità con cui tanti si adattano a ciò che è più semplice (anche se è ciò che effettivamente molti desiderano), la facciata che rende tutto più bello, ma anche terribilmente falso. I racconti di Leavitt fanno proprio questo, smascherano l'ipocrisia mostrando la verità che si nasconde dietro alle situazioni più semplici.
 Si parla spesso del fatto che la buona letteratura debba contenere una grande dose di verità. Ma cosa intendiamo quando si dice questo? Cos'è questa verità?
Chiariamo. Almeno secondo me non è il verismo, non è l'enunciazione dogmatica di ciò che è giusto o sbagliato, la verità nella letteratura ci svela il mondo nudo, gli esseri umani per quello che sono, nel bene, ma anche nel male, cosa per cui ci vuole assai più coraggio e di cui abbiamo un gran bisogno nella nostra società ormai così ipocritamente manichea. 
 I racconti di Leavitt parlano dei terrori di una madre che ha il cancro, ma anche del suo odio per il marito che l'ha piantata per una studentessa più giovane, i suoi timori per il figlio più piccolo, che ama tantissimo, ma non esita a definire timido e bugiardo.  

 Esemplare è il primo racconto in cui la rispettabilissima madre di famiglia che fa del suo unico figlio la sua principale ragione di vita diventando presidentessa di tutte le associazioni per i genitori, seguendo il suo percorso scolastico, diventando persino un'attivista quando suo figlio rivela di essere gay.
  Eppure questa facciata perfetta  ha una crepa gigantesca che si espande quando il figlio gli presenta il suo compagno: lei è la madre dell'anno, l'attivista che protegge suo figlio eppure non riesce a vederli neanche prendersi per mano. Ed è in quel momento che si rivela per quel che è, e Leavitt non ha neanche bisogno di dircelo: quella madre forse ama suo figlio, ma non si è mai davvero impegnata per lui, lo ha fatto sempre per se stessa, per mostrare agli altri una sorta di perfezione materna da cui trarre riconoscimento sociale.
 Sono tutte pennellate così: la ragazza che disprezza sua madre non accorgendosi del troppo clamoroso affetto per suo padre, la perfetta famiglia che si ostina a fare insieme le vacanze estive nonostante il divorzio del padre e collassa sotto la catastrofe materna.
  Non succede niente, ma noi possiamo vedere tutto, molto più di quello che c'è. Non è solo una famiglia che si disgrega, è la fine di un'illusione, la debolezza umana, l'ipocrisia di cui ci nutriamo, la rispettabilità di cui molti non possono fare a meno, il desiderio che gli altri non ci considerino inferiori o emarginati.
 Questo negli elaborati racconti di Levin non c'è. Davanti a quelli di Leavitt i suoi racconti rivelano un'ipocrisia assai diffusa in un certo modo di scrivere: molti talentuosi scrittori contemporanei, pensano che basti lo shock, la variazione sul tema surreale, la contorsione linguistica, la grande novità stilistica, per essere considerati delle grandi nuovi voci. Nascondo dietro una splendida forma, la mancanza di altro.
In un certo qual modo, (ma immagino che Levin avrà tempo per dimostrarci altro), usano il loro talento solo in superficie (chiariamo grandiosa superficie), senza andare più a fondo.
 I racconti di Levin non ci raccontano nessuna verità, ci mostrano un ottimo scrittore che però non è in grado di svelarci nulla, di smascherare niente, di mostrarci colpevoli di fronte a qualcosa che stiamo leggendo,
 Perché è questo che fanno le storie buone, ci parlano della verità che non sappiamo vedere perché non vogliamo.

2 commenti:

  1. raccolte di racconti (cut) siano come un Lp: magari due o tre tracce sono buone, ma per il resto devi sciropparti improbabili sperimentazioni, improbabili collaborazioni, improbabili noie riempitivo.

    Trovo che questo sia più vero per le raccolte di racconti di autori diversi. Quando i racconti sono tutti della stessa mano, è più facile che - qualitativamente - siano più allineati.
    Comunque, "Secretary" è uno dei miei film preferiti, ti dirò. Prima o poi devo recuperare il libro di racconti da cui è tratto ^^

    Ho letto "Ballo di famiglia" ai primi anni di università, pescando quella stessa edizione che hai messo in foto in una bancarella di libri di fronte alla facoltà. Fu un colpo di fulmine immediato per Leavitt. Tu hai fatto una bellissima analisi, io lì per lì non capii granché del perché o del percome, ma compresi solo che quella roba mi piaceva un sacco! Il racconto che preferii è quello dedicato all'amica terza-non-proprio-incomoda della coppia gay :)

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    1. A me quel racconto ha fatto pensare da morire a una mia amica O.o

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