mercoledì 18 gennaio 2017

Quando il giallo non comincia proprio mai. La recensione di "Un buon detective non si sposa mai" di Marta Sanz tra gemelle, omicidi che non avvengono mai e nervosismo.

 Nella mia famiglia nascono quasi solo femmine.

E' proprio un'involontaria tradizione familiare, perpetrata soprattutto da parte materna (anche se mio padre può vantare sei sorelle e zero fratelli) che peraltro non si sta spezzando neanche con la mia generazione visto che la mia prima cugina incinta aspetta, appunto, una femmina.

 Nasce, in media, un maschio per generazione, così tanto per fare un po' di statistica. 
 Inoltre, sempre per parte materna, sono frequenti i parti gemellari (di femmine, s'intende, anche mia mamma ha una gemella e sia le mie cugine che le mie sorelle puntano sul tratto ereditario per togliersi l'incomodo della doppia procreazione in una sola rapida mossa).

 Non so se ci sia molta differenza con le famiglie in cui maschi e femmine nascono in ugual misura o in cui invece nascono solo maschi, in generale però capisco per quale motivo le famiglie a maggioranza femminile affascinino molto gli scrittori.

 
Esempio di libro di "donna forte" con prole.
Tra l'altro questo nello specifico mi interessa
C'è quella sorta di possibilità inesplorata che è alla base anche di molti racconti di fantascienza:
cosa accade in un mondo dominato da donne? E cosa accade in un mondo, intimo, familiare, in cui gli uomini sono, per caso, minoranza?

 Fior fior di saghe familiari sono sorte da questa grande domanda generalmente risolta con una valanga di cliché: le donne sono forti, le donne forti si innamorano di uomini deboli che ne combinano di ogni rifilando loro un casino dietro l'altro e qualche figlio. 
 Generalmente le donne forti passano la vita a risolvere i casini degli uomini deboli e a crescere figli che non conoscono mezze misure: o combinano qualche casino gigagalattico (che poi le madri forti in quanto madri dovranno risolvere) o diventano il loro orgoglio, dando un senso a tutta la storia e alla loro vita.

 Scritte bene o scritte male, visto che alla donna si addossa la tendenza familista come destino naturale sin dalla nascita, le storie sono tutte più o meno simili.
 E chi non fa figli di solito è la parente strana sullo sfondo.

 La trama di "Un buon detective non si sposa mai" di Marta Sanz, ed. Nutrimenti, sembrava promettere qualcosa di diverso.

Innanzitutto il protagonista è un bell'uomo, Arturo Zarco, un detective privato divorziato da poco dalla moglie (un personaggio che appare di continuo come sua coscienza anche in modo abbastanza confuso) perché innamoratosi di un avvenente giovinetto, in stile bonazzo dell'antica Grecia, di nome Olmo.

 Si tira perciò (come vuole la citazione nel titolo che è una raccomandazione di Raymond Chandler a chi volesse cimentarsi nella nobile arte del romanzo giallo) fuori da qualsiasi gioco amoroso possibilmente previsto dalla trama (anche se, a un certo punto, nel casino rischia di finirci anche lui).
 Questo perché la trama racconta di una famiglia in cui nascono solo gemelle identiche.

 Di queste gemelle, solitamente, solo una delle due si sposa e ha altre due bambine, l'altra evita e si dedica ad altro.

 La prima coppia di gemelle, Amparo e Janni, è ormai anzianotta. 
 Amparo è diventata un'imprenditrice di successo e ha sposato non troppo giovane, un podologo di meravigliosa bellezza.
 Janni, invece, ha sposato un tedesco e con lui si è trasferito a Stoccarda. 
 Quello che non è molto chiaro è perché abbia avuto dal tedesco due gemelle, Marina e Ilse, e invece di portarle con sé le abbia lasciate alla cura e tutela di Amparo.

 In ogni caso, Marina e Ilse crescono, Ilse si sposa e ha due gemelle, mentre Marina, complice il fatto che è perdutamente innamorata del bel podologo, (il quale non la fila minimamente), non fa che viaggiare per il mondo in preda al disturbo bipolare e alla ricerca di sé stessa.

 Ed è Marina il motivo per cui Zarco entra in questa storia.
 I due si conoscono e lui è ospite di lei, nella lussuosa dimora dove vive assieme a tutta la famiglia: la vecchieggiante e ormai depressa Amparo, Ilse dopo la separazione dal marito, le due nuove gemelline e il meraviglioso podologo.

 Ecco, l'attacco è bello e ci sono pezzi scritti davvero benissimo, soprattutto il lungo monologo di Ilse, in cui scopriamo l'amore disperato di Marina per il patrigno, però c'è un grosso problema.
 Il problema è che il giallo post-moderno va benissimo, il tema del doppio piegato al giallo va ancora meglio, ma si deve capire che è un giallo.

 Anche l'idea di usare l'espediente delle gemelle, identiche esteriormente quanto diverse interiormente, simbolo ideale del doppio (nate insieme, due vite diverse con lo stesso viso) su di me devo dire ha poco appeal.

 Avendo una madre gemella identica che in paese dopo 50 anni ancora confondono con la sorella, (mentre ai miei occhi è completamente diversa da mia zia), il mito dei gemelli su di me ha una presa relativa.

 Sì, hanno visi magari uguali, sì nascono insieme e sono molto attaccati, ma lo stesso può succedere a fratelli che nascono in modo ravvicinato e comunque nessuna assurda leggenda su dolori correlati, telepatia, empatia e simili ha nessun vago fondo di verità.

Però capisco l'archetipo del doppio ecc ecc, ma che nell'economia abbia un senso logico.
  Anche il finale è molto intelligente e poeticamente cruento, ma manca quell'istante in cui si accende la luce sul palco della trama e appare un lampeggiante con scritto: apice del climax, delitto avvenuto qui.

 Perché il grosso problema di questo libro è che per tutto il tempo non capisci cosa stai leggendo.

Continui ad avere la sensazione che debba succedere qualcosa e che è lì lì per succedere, che Marta Sanz ti stia riempendo di confessioni di ogni membro della famiglia per qualche motivo. Pensi di scoprire indizi di un qualche delitto in episodi che si susseguono uniti da flebilissimo filo che però è a un passo dal perdere di senso, ma niet.

 Però ormai sei arrivata a pagina 190 e pagina 230 e ti dici che lo devi finire, anche solo per capire se è un giallo o meno. Ed ecco sì, alla fine è un giallo.

 E sì effettivamente c'è stato un delitto da qualche parte, anzi due, solo che: il primo non potevamo saperlo e il secondo hai la velata sensazione che sia avvenuto, ma giusto perché è l'unico evento che mostra qualche sospetto in quasi 300 pagine.

 Una vecchia regola del giallo dice che devi mostrare l'assassino durante la storia.
 Cioè, non puoi scrivere un giallo e poi dire che l'assassino era il vicino di casa del dodicesimo piano che nessuno ha mai visto né conosciuto (questo succede ne "La promessa" di Durrenmatt che infatti ha come sottotitolo "Requiem per un romanzo giallo", ma lì siamo da altre parti letterarie).

 Qui Marta Sanz è andata oltre: vediamo tutti gli assassini, ma non sappiamo che lo sono.
 Certo, anche questa potrebbe essere un'interpretazione interessante: l'orrendo doppiofondo che hanno tutte le famiglie, soprattutto quelle che appaiono splendide, ricche e felici.
 Davanti splendore, dietro orrore. 

 Però ecco, il tono del libro non è la sordida ipocrisia borghese, non è neanche il fascino della famiglia a maggioranza femminile, non è la famiglia, non è l'elemento impazzito che porta disordine (il podologo è una scheggia impazzita in un caos di schegge impazzite), il problema del tono del libro è proprio quello: non c'è.

 C'è una buona idea di partenza, un buon protagonista, bei momenti, ma arrivare alla fine è faticoso e lascia insoddisfatti e anche un po' nervosi. 
 O almeno è così che ci sono rimasta io che non vedevo l'ora finisse e le pagine mi sembravano moltiplicarsi (ma ormai volevo capire dove caspita andasse a parare).

 Peccato, si poteva fare di meglio. Inutile dire che anche se l'altro libro dell'autrice promette una trama comunque avvenente, mi guarderò bene dall'avvicinarmi.

 Qualcuno l'ha letto? Sono io che non ho capito il meraviglioso senso di questo tomo? Sono io che mi annoio troppo facilmente? O anche voi speravate solo che ad un certo punto il podologo finisse a letto con la figliastra o col detective pur di dare una svolta a un libro che non entra mai nel vivo?

5 commenti:

  1. L'ultimo maschio di famiglia è mio cugino del'76, l'ultimo prima di lui era nato nel 1906. In mezzo, prima e dopo, una caterva di femmine: La casa degli spiriti, praticamente, ma senza guerre, rivolte, terremoti e chiaroveggenza. 'Sto libruccio mi intrigava assai, ma dopo la tua recensione non so. Maaaaaa... tu che hai il polso reale della situazione: si smerciano le cronache dei Cazalet della Howard? Sul web impazzano recensioni entusiastiche, mi sono comprata il primo volume in ebook in quanto non l'ho trovato in nessuna libreria e m'è rimasto il dubbio se fosse sold out o mai ordinato nè considerato :)

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    1. Mah, la saga dei Cazalet pare vende molto, devo controllare se il primo volume magari è in ristampa. Dicono sia molto bella, ma non so, non mi ispira

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  2. La famiglia di mia madre era di quelle a maggioranza femminile: sei sorelle e un fratello. Noi cugini (un branco, viste le premesse) ci siamo polarizzati: fino a metà degli anni '90 sono nati solo due maschi e una caterva di femmine, dopo quella data una sola cuginetta e una caterva di maschi. Saranno i cambiamenti climatici del pianeta ad aver stimolato l'inversione di tendenza, forse? XD
    Nella famiglia di mio padre, invece, zompetta il gene della gemellarità, ma del tipo eterozigote: vari casi di gemelli-molto-diversi, per altezze, capigliature e "colori", fino a giungere ai miei cugini primi che sono, direttamente, maschio e femmina. E grossa invidia per zia che, ormai in età non più verdissima e dopo qualche brutto precedente, si levò il pensiero in una volta sola facendo en plein :D

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  3. Condivido la tua recensione al cento per cento. Neanche la fine si capisce se è realtà o un delirio del detective, come buona parte del libro.

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