mercoledì 3 dicembre 2014

Pier Paolo Pasolini come rito di passaggio. Alcuni scrittori servono per farci diventare persone e alcuni incontri per porci domande su quello che siamo stati e che saremo. Storia di un ricordo e di tre foto.

Ormai sono dell'opinione che più uno è giovane e inconsapevole (ma talvolta basta anche essere inconsapevoli), più le cose piovono addosso con facilità.

 Robe che magari poi da adulti, bramiamo rendendoci conto di aver perso un'occasione fondamentale, un momento topico, un incontro irripetibile. Mi è venuto in mente in questi giorni quando mi è capitato sotto mano a lavoro, un bel libro su Pasolini, "Album Pasolini" (ed. Mondadori 14 euro, un gran prezzo giuro).
 Di libri di critica letteraria su questo personaggio tanto irripetibile, quanto estremamente particolare nel panorama culturale italiano, ce ne sono a bizzeffe. Solitamente non mi piacciono devo dire. 
 Pasolini possiede infatti le qualità proprie di un classico scrittore di passaggio, non nel mondo o nella storia s'intende, ma di autore vissuto come un rito di passaggio. 
 Ci sono molti classici che si devono leggere. In genere si deve perché ciò che c'è scritto è talmente universale da potersi propagare nei secoli come un'onda senza fine. Noi dobbiamo leggerli per capire il mondo.
 Alcune volte  invece, ci sono degli scrittori che si devono leggere per diventare persone, per completare, si potrebbe dire, una sorta di ciclo di formazione. Pasolini è uno di questi. 
 Forse non si può paragonare la sua opera a quella dei monumentali scrittori russi o degli americani o di alcuni inquietanti e imperscrutabili orientali, tuttavia leggere Pasolini ha un significato che trascende quello che ha (comunque splendidamente) scritto. 
  C'è tutto un vociare in questi giorni su Elena Ferrante, sul fatto che non si sa chi sia, che la sua esistenza pone l'accento sul fatto che la vita di uno scrittore e la sua opera dovrebbero e potrebbero, per qualche motivo, essere completamente separati. Mi pare assurdo, la storia della letteratura non è altro che l'incessante studio delle vite degli altri. La stessa Elena Ferrante, scegliendo di non raccontare nulla di sé, racconta qualcosa. Non esiste gesto che non abbia significato, anche il silenzio, anche l'assenza ce l'hanno.
 Pasolini e la sua vita sono un esempio di come l'opera non possa in nessun modo prescindere dallo scrittore. Forse in pochi scrittori, come in lui, la presenza fisica dell'autore, la sofferenza, diventa talmente presente, da sembrare reale, solida, nel momento in cui si legge.
 Svariati anni fa, quando abitavo ancora nel mio ameno paesello, io ed alcuni amici, decidemmo, in un impeto di fervore politico, di mettere su un'associazione culturale. Visto che eravamo davvero imberbi e non avevamo la vaga idea di dove mettere le mani, decidemmo di tirare su un Cineforum, specificatamente dedicato a Pasolini. 
La mia conoscenza di Pasolini fino a quel momento era dovuta principalmente ad uno di quei vituperati libri che ti danno da leggere alle superiori. la mia professoressa di italiano ci propinò "Ragazzi di vita" e probabilmente fu anche encomiabile, lo fu meno il fatto che ce lo sparò nel niente, senza contestualizzarlo o fare una lezione sull'autore (come tutti i programmi di italiano si arrivava a dire tanto a Moravia). 
 Poiché quell'anno mi ero incaponita di portare una tesina di maturità sull'omosessualità, venni specificatamente invitata a concentrarmi su di lui e così finii per leggere svariati altri suoi libri. Di tutti (ma non ne ho letti ancora molti e di certo mi mancano i fondamentali), mi colpì in particolar modo "Teorema".
 Era scritto in modo fantastico e la trama partiva da un concetto tanto semplice quanto devastante: un angelo bisessuale, senza passato, presente o futuro, piomba presso una famiglia borghese.
 Non ci sono contestualizzazioni particolari, motivazioni, complesse contorsioni mentali. Succede e basta. Questo elemento esterno fa implodere il perbenismo, l'apparenza, il desiderio, in modo spettacolare e catastrofico. Padre, madre, figlio, figlia e domestica si innamorano di questo bellissimo sconosciuto che a tutti si dona, ma a tutti non dona niente se non la propria presenza. Poi, un giorno, di colpo scompare e tutti devono fare i conti con ciò che è stato, con ciò che è rimasto, con quello che hanno imparato e sono diventati. Ma nessuno ha imparato davvero niente, l'apparenza borghese è entrata sotto la pelle, è diventata l'essenza di persone che si accorgono, davanti al desiderio, di non essere nulla e tutto finisce in tragedia per tutti ( tranne per la domestica che infatti borghese non è).
  Comunque, l'entusiasmo pasoliniano round primo, si può dire che terminò abbastanza bruscamente nell'estate della maturitàquando io e una mia amica, vedemmo incautamente "Salò o le 120 giornate di Sodoma". 
 Avevo reperito un vecchio VHS preso con l'Unità da mio nonno e tutte allegre ci eravamo sparate due ore di violenze che consiglio a chiunque di non vedere se non adeguatamente preparati psicologicamente. Andammo fino in fondo, ma l'esperienza fu talmente traumatica che chiusi la mia esperienza pasoliniana liceale nel cassetto.
 La riaprii appunto qualche anno dopo.
  Quale può essere infatti la prima mossa di un'associazione di giovani politicamente impegnati? Ma un cineforum ovviamente! (Che poi, seriamente, io prima di allora avevo partecipato ad un solo cineforum in tutta la mia vita, quindi era palesemente un'idea presa da un universo mitico).
 Così, a qualcuno venne in mente Pasolini, comprammo qualche dvd, scoprimmo di dover pagare la Siae, la pagammo, un'associazione ci prestò sede e proiettore e facemmo tre giorni di cineforum a cui andammo solo noi, qualche parente e due o tre sconosciuti. La faccenda morì poi lì e noi ci dedicammo ad altre manifestazioni (tra cui una mostra sull'aborto non ricordo neanche perché).
 Qualche giorno dopo l'amica con cui avevo organizzato il cineforum ricevette una chiamata da uno dei due o tre sconosciuti che si erano presentati quella sera (non mi chiedete come avvenne la reperibilità del contatto telefonico perché non me la ricordo), il quale ci invitò a casa sua.
 Andammo una sera, io, lei e altri due ragazzi del gruppo. Era un signore grosso e barbuto, aveva una casa stipata di cose e di libri che mi colpì molto. Mi domandai, come mi domando sempre quando vedo case di persone un po' avanti negli anni, cosa ne sarebbe stato di tutte quelle cose un giorno, quando non ci sarebbe stato più (sappiate che me lo chiedo pure delle mie, visto che accumulo presunti ricordi sotto forma di carta di continuo). 
Ci parlò di qualcosa che non ricordo, poi regalò tre foto a me e tre foto alla mia amica. Io scelsi una con Pasolini che reggeva il libro de "Le ceneri di Gramsci" (quella dell'inizio), un'altra che è quella nella foto e una di Pasolini con sua madre.
 Ci salutammo e non lo vedemmo mai più. Anni dopo riconobbi la foto dell'uomo barbuto su un giornale. Era morto. Si trattava di Sandro Becchetti, famoso fotografo che, ovviamente, non avevamo riconosciuto perché non potevamo riconoscere.
 Mi domandai perché ci avesse invitato quella sera e cosa avesse pensato constatando che per noi era un perfetto sconosciuto nonostante le foto che ci diede. Pensai che forse era uno di quegli adulti che cercano di trovare qualcosa di buono nelle nebbie del futuro, ci aveva visti fare un cineforum su Pasolini e ci pensava un attimo più svegli dei nostri coetanei.
 Non poteva conoscere i miei attimi di terrore davanti a "Salò e alle 120 giornate di Sodoma" o alle mie perplessità lessicali davanti al ferrobedò citato in continuazione in "Ragazzi di vita".
 Però mi rendo conto che anche questo dimostra come Pasolini sia, più di moltissimi scrittori, grandi della letteratura, uno scrittore che è anche un rito di passaggio. Non ho tanti ricordi legati ad uno scrittore durante la mia prima giovinezza come con lui, e non ero certo una fomentata che girava col "Manifesto del partito comunista" in tasca.
 Ero solo una che leggeva e leggendo sperava (ora ci spero un po' meno) di dissipare almeno un po' le nebbie del futuro-

4 commenti:

  1. È da molto che desidero leggerlo, ma il "personaggio" Pasolini mi frena rispetto all'artista e non so se riuscirei a dare un giudizio oggettivo...

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    1. Anche per quello secondo me sarebbe meglio studiarlo alle superiori, lo umanizza. Comunque io consiglio tantissimo "Teorema", il libro è scritto in modo particolare perché era pensato sostanzialmente come il trattamento del film che ne è stato tratto quasi subito. Però il film secondo me, per paradosso, non ha la forza di questo libro, che è meno fisico degli altri e colpisce nel vivo quel perbenismo che ancora esiste in una larga parte della società (che forse adesso ha ormai travalicato il borghese perché, secondo me, è ancora peggiore).

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  2. Io scoprii PPP mi pare in quarta superiore, con gli Scritti corsari. Da lì in poi fu amore, letteralmente: lessi TUTTO quello che aveva scritto, reperii faticosamente vecchi vhs e dvd dall'estero e mi sparai Salò, Accattone, Teorema, Il Fiore delle mille e una notte... Penso che sia un autore imprescindibile, anche se pure io più di una volta mi son chiesta quanto sia possibile "slegare" l'artista dall'uomo... Il fatto che fosse pederasta non è così facilmente trascurabile.. Però consiglio di leggere Atti impuri, che nonostante la tematica ho adorato, un racconto quasi autobiografico del periodo a Casarsa.

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  3. A proposito dell'adeguata preparazione psicologica che richiede la visione di "Salò o Le 120 giornate di Sodoma"... io osai guardarlo solo dopo esser sopravvissuta a "Il Cigno Nero" e "Hellraiser". Tanto per darvi un'idea... ;)

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