Qualche anno fa, un'amica di Dolcemetà, dopo aver girato mezzo mondo era infine tornata a vivere nella propria sonnolenta cittadina natale, pronunciò una frase che all'epoca mi colpì molto e che infatti non era sua.
Parlando della sua sonnolenta cittadina, dalla quale si era tenuta orgogliosamente alla larga per tanto tempo, disse che nonostante tutto era davvero difficile non provare un attaccamento forzato.“Sai com'è la storia, no?”, disse, “visi e dolori e stagioni, amori e mattoni che parlano.”
Non sapevo all'epoca si trattasse di un verso di “Piccola città” di Guccini, una canzone che durante il lockdown mi ha letteralmente tormentato consumandomi di nostalgia.
Chiusa in casa, avevo una voglia disperata di tornare alla mia piccola città sul lago, Bracciano, una nostalgia struggente che non si è placata dopo la fine del periodo Covid più duro e che in un certo senso è stata determinante nella scelta di trasferirsi a Roma (anche se in verità è stato molto più destino che altro).
Questo senso di attaccamento matto e disperatissimo è una delle cose che mi ha più colpito de “L'acqua del lago non è mai dolce” il libro di Giulia Caminito ed. Bompiani, (meritatamente nella cinquina dello Strega), ambientato ad Anguillara, uno dei tre paesi sdraiati sul lago di Bracciano.
La storia, per stessa ammissione dell'autrice, non è autobiografica, ma alcuni personaggi ispirati, alcuni cenni, alcuni ricordi e di certo il suo attaccamento per il paese di Anguillara e il territorio lacustre in generale, lo sono e si capisce ad ogni riga.
Lo dico subito, leggere questo libro, ambientato nel posto dove anche io sono cresciuta (e più o meno negli stessi anni visto che Giulia Caminito ha solo qualche anno in meno di me) è stata un'esperienza difficile e anche stranissima.
Ma qual è la trama del libro?
La storia racconta l'adolescenza e la giovinezza di Gaia, ragazza di basso ceto sociale, figlia di una donna volitiva e fortissima di nome Antonia. Ha tre fratelli e un padre che si è ritrovato con la schiena spezzata perché un giorno è caduto da un'impalcatura a nero e nessuno ha visto, sentito e denunciato.
Antonia combatte con le unghie e con i denti per la propria famiglia e cerca da anni di farsi assegnare un alloggio popolare. La sua pratica passa di mano in mano fino ad arrivare nella mano giusta riuscendo così a ottenere una casa in un bel quartiere.
Troppo bello per gente come loro e sin da subito la famiglia si trova male, circondata dal sospetto dei vicini benestanti. Trova così il modo di scambiare il proprio alloggio con quello di una donna che ne ha avuto uno fuori città, ad Anguillara, un posto di provincia, ma non troppo, dove la vita costa meno e i figli forse si troverebbero meglio.
L'avventura di Gaia inizia così, con gli stessi calcoli che fanno i molti romani che decidono di trasferirsi sul lago (principalmente ad Anguillara che Bracciano è terra di figli e nipoti dei militari dell'enorme scuola di Artiglieria locale, tipo me).
Ma anche se a due passi dalla città, Anguillara è un paese, col suo microcosmo che solo chi è vissuto in un paese conosce e Gaia ci si tuffa come un pesce.
Vive enormi amicizie, dolori feroci, estati avvolte nella canicola allietata dai tuffi estivi, le serate nei locali del lungolago, la noia delle giornate dove non rimane altro che passeggiare sulla riva o andare a Roma a fare qualche vasca, il maledetto treno della tratta Roma-Viterbo che ci mette un'ora e mezza a fare quaranta chilometri. E ha un carattere ferocissimo Gaia, una voglia di vivere, di arrabbiarsi, gridare, pretendere, dibattersi che la rendono un personaggio di incredibile vitalità, anche grazie ad alcuni stralci del libro, scritti in un evidente stato di grazia.
Ho letto molte recensioni di questo libro, tante interpretazioni per la sua protagonista (e anche tanti travisamenti), ma mi è difficile essere obiettiva nel parlarne. Quello che ho provato leggendolo è stata un'emozione nella lettura che non provavo da molto tempo e che in un certo senso ha concentrato l'eco di tante cose che ho vissuto anche io, in altro modo certo, ma in modo simile.
C'è un passaggio che per alcuni sarà solo la descrizione del tragico pendolarismo che mezza Italia è costretta a vivere su mezzi pubblici vecchi e sempre in ritardo.
Gaia descrive il suo forsennato salire e scendere dai treni della tratta Roma-Viterbo che, dovendo sopperire alla mancanza di metropolitane a Roma, fa millemila fermate costringendo chi vive fuori a un calvario per una manciata di chilometri.
Quella descrizione per me è stato il flash esatto di spossanti e rabbiosi anni passati a saltare sul medesimo treno, con la medesima ansia, le medesime arrabbiature oscene contro chi si sentiva male costringendo il treno a fermarsi a “Gemelli” in piena galleria, ma vicino all'ospedale, contro i poveracci che di tanto in tanto si suicidavano. Ho letto esattamente quello che ho vissuto, parola per parola.
E vi assicuro che è un'esperienza stranissima, che va oltre il “romanzo ambientato in un posto che conosco”.
Sarà stata in parte una felice congiuntura di comuni destini, ma in verità il merito va alla splendida scrittura di Giulia Caminito, che in questo libro riesce lì dove molti falliscono: dare la giusta forma a qualcosa che per molto tempo è esistito con enormità schiacciante solo dentro di te.
Riesce a raccontare il fervore e la rabbia di una giovinezza che va oltre, secondo me, lo stesso contesto sociale in cui l'autrice ha scelto di inserire la sua protagonista. La povertà, l'ingiustizia sociale, una madre ingombrante sono parte di Gaia, ma Gaia sembra avere una fiamma che va oltre quello che l'autrice ha apparecchiato per lei.
C'è molta rabbia e moltissima nostalgia in questo romanzo.
Una nostalgia che condivido per quello che eravamo e che non saremo mai più, per un posto che ha significato la giovinezza ed è legato a un insieme di ricordi, di amori, di amicizie ed esperienze che non sono replicabili in nessun altro momento dell'esistenza.
Ci sono tante altre cose in questo libro, è vero, cose sulle quali gran parte della critica e delle recensioni si sono concentrate.
C'è la povertà, c'è una certa violenza giovanile a cui i giovani, bisogna essere onesti e sinceri, sono abituati (i giovani di ogni epoca, me compresa), c'è odio, amicizie indimenticabili, ci sono persone che perdiamo nel cammino perché come cantavano I tre allegri ragazzi morti, “Ogni adolescenza coincide con la guerra, che sia falsa o che sia vera”.
Ma quello che alla fine rimane davvero e rende questo libro così speciale rispetto alle molte altre valide giovinezze raccontate in tanti altri romanzi, è un senso di inesplicabile nostalgia per un luogo e persone, comprese le persone che noi stessi eravamo, che sono esistite in un certo modo solo in un determinato frangente, e che in quel modo esatto, anche se torneremo, non potremo rivedere mai più.
"Piccola
città, vecchia bambina
che
mi fu tanto fedele, a cui fui tanto fedele tre lunghi mesi;
angoli
di strada testimoni degli erotici miei sogni,
frustrazioni
e amori a vuoto mai compresi;
dove
sei ora, che fai, neghi ancora o ti dai sabato sera?
Quelle
di adesso disprezzi, o invidi e singhiozzi se passano davanti a te?"
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